Ma questo non è un film, è una compilation! Quando si parla di commistione di generi ci si attende, per lo più, che elementi dell’uno o dell’altro, in numero limitato, vengano fatti coesistere per sovrapposizione. Il regista giapponese Sabu, in Mr. Long la prende in un modo differente: venti minuti di crime movie, stop, venti minuti di film comico, stop, venti di mélo familiare, stop eccetera, e a un certo punto in questo bailamme cala pure il teatro kabuki. Il virtuosismo di Sabu nel maneggiare materiali tanto eterogenei è mostruoso,
ma rischierebbe di restare un mero esercizio di stile senza una coesione finale.
Ed è difficile descrivere con quale miracoloso amalgama tale coesione si compia: forse nell’impronta fumettistica (magari perché è l’unico genere che non si presenti con le sue credenziali), forse nella speciale sensibilità del regista che ripercorre un canovaccio narrativo già abbondantemente esplorato nei decenni, ma con una freschezza lirica ed espressiva che coinvolge in un turbine emotivo anche lo spettatore più rude, o quello più esigente.
La storia, che comincia a Taiwan, è quella di un feroce killer che eccelle nell’arte del coltello. Dopo avere assistito alla sua prima prodezza lo vediamo inviato a Tokyo, sempre con parche indicazioni circoscritte al luogo e della persona da colpire (le sue vittime sono sempre criminali, a loro volta). Ma stavolta il trucido predestinato è sul chi vive e Long per un soffio non ci rimette le penne. Si ritrova braccato, ferito, senza né soldi né passaporto e ripara presso un gruppo di baracche semiabbandonate: il suo soccorritore è uno sveglissimo bambino, Jun, che lì vive con la mamma, prostituta taiwanese, tossicodipendente grave per la cui terapia Long realizza su due piedi un intervento in San Patrignano’s old style. Dopo di che viene adottato da un rumoroso gruppo di amici un po’ svitati, di estrazione umile, di gran cuore, accomunati dalla passione per il teatro amatoriale e poi folgorati dalla cucina taiwanese, che Long pratica, se dobbiamo credere a loro (e alle immagini) sublimemente, districandosi nel taglio del lacerto destinato ai noodles con non meno perizia di quando sventra un polmone umano. I nuovi amici lo battezzano Mr. Long e gli allestiscono un carretto gourmet di fronte al tempio che in pochi giorni sbanca. Long pare soddisfatto, anche se non ride e nemmeno parla: giusto qualche parola col bambino, che diventa il suo inseparabile assistente e che è l’unico a comprendere la lingua (il fatto che Long non intenda il giapponese, tuttavia, non scoraggia minimamente i suoi sostenitori dal riversargli costantemente addosso un flusso verbale concitato e ininterrotto). Soprattutto Long è intenerito da Jun, che gratifica di una serie di gesti e opere di incantevole dolcezza, prima che il passato si ripresenti crudelmente, reclamando uno spettacolare finale da western (salvo il tipo di arma).
In tanto godimento estetico, mai estetizzante, non è semplice selezionare le scene di genere più riuscite: irresistibile comicamente la prima tavolata con i giapponesi “buoni” che decantano i manicaretti sfornati da Long, tra le migliori in quel canone le abbaglianti scene metropolitane di Taiwan e Tokyo, non edulcorate ma formalmente controllate e fermate prima dello splatter le sequenze d’azione. L’unica concessione che Sabu fa alla contemporaneità cool sono i passaggi di kitchen film asiatico. Se è vero che Mr. Long si può considerare un film sulla seconda possibilità in una vita, è ai giorni nostri che quasi tutto sognano di cambiarla facendosi strada nel food… La colonna sonora di Junichi Matsamoto (ah, certi assoli di violoncello!) non potrebbe esistere fuori da quelle immagini, ma le interseca in modo talmente puntuale da deporre l’impressione che nemmeno le immagini potrebbero esistere senza di lei. La recitazione collettiva è impeccabile e Chen Chang, che interpreta Long, è ormai una maschera dell’intero cinema d’autore nipponico. I silenzi del personaggio sono fondamentali per incorniciare le parole degli altri, oltre che per scolpire la sua personalità. Sabu è una piccola enciclopedia del cinema, e si approssima più di una volta a quello classico americano. Ma più di ogni cosa è radicato nella sua cultura. Con le debite rivisitazioni, certi paesaggi urbani ricordano Ozu, certi furori passionali Kurosawa e le trame riecheggiano Kitano, sia quello di L’estate di Kikuijro (dove però la relazione uomo-bambino non aveva la stessa rassicurante naturalezza) sia quello di Zatoichi, per la moralità del vendicatore.
Mr. Long
Sabu
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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