Recensione del film “Qui rido io”

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Basta con questa farsa! Nel palazzo sontuoso dove dimora Eduardo Scarpetta, il mattatore incontrastato del teatro comico napoletano tra fine Ottocento e inizio Novecento, qualcuno avrebbe potuto sbottare in questo modo per rompere la tacita e silenziosa accettazione dell’inusuale condizione familiare. Sono otto i figli, ma solo uno legittimo, nato da Scarpetta e sua moglie Rosa, Vincenzo, ed è anche l’unico che arriva a un passo dallo scoperchiamento urlato. Degli altri due figli della coppia, Maria proviene da una vecchia relazione dell’attore e Domenico è stato concepito da Rosa nientemeno che col re, aprendo la strada alla concessione di fondi pubblici per il teatro. A portata di carrozza, però, ci sono assieme alla loro madre, l’ex sarta Luisa, altri tre figli di Scarpetta che mai verranno da lui riconosciuti, e chi sa la storia ha già capito che si tratta (anche questa volta dico nientemeno) di Eduardo, Titina e Peppino De Filippo: il quale ultimo non solo non è riconosciuto ma è tenuto a balia in campagna, è tenuto sulle palle dal padre e quando finalmente viene integrato nella tribù non si sente tenuto alla medesima devota obbedienza degli altri verso il capoclan. A mugugnargli dietro, al capoclan, che lo chiamino papà o lo chiamino zio (i De Filippo) sono però un po’ tutti perché è un dittatore prepotente ed egocentrico, un maniacale stacanovista del teatro che impone alla sua compagnia ritmi tayloristici e salari da Foodora, un piccolo borghese megalomane ed esibizionista, con il tarlo di un’opulenza da ascesa sociale che cavalca con la stessa fame con cui personaggio che interpreta in Miseria e Nobiltà (la commedia in scena quando si apre il film) si avventa insieme a un altro stuolo di straccioni su un piatto di spaghetti cavandosi in tasca quelli che non riesce a ficcarsi con le mani nell’esofago (scena tramandata ai posteri da Totò, nel film del 1954). Quel personaggio suo è Felice Sciosciammocca, che nel cuore del pubblico trasversale che si contende le poltroncine dei teatri napoletani ha preso il posto di Pulcinella, e alla sua comicità disinibita, triviale, ammiccante, transclassista e intensamente corporea tributa sganasciamenti, ovazioni e denaro – con gli incassi Scarpetta riesce a comprarsi la villa su cui effigia il claim “Qui rido io”. Questo perfetto ingranaggio, che Scarpetta sogna di trasformare in una rendita teatral-generazionale, rischia però di incepparsi quando sceglie di rappresentare “Il figlio di Iorio”, sua parodia della tragedia di D’Annunzio. Gli intellettuali classicisti gli tendono un agguato e contestano rumorosamente la messa in scena sino a interromperla, e il vate intenta causa per plagio con richiesta di danni a Scarpetta, che vede incrinarsi la sua sicumera, tanto più che il mondo intorno dà segni di poter ruotare intorno a baricentri diversi da quelli in cui egli si riconosce (tipo lo spauracchio del cinematografo, che esercita una forte suggestione sul figlio Vincenzo, schiacciato e volte umiliato dall’arroganza del genitore). La questione sarà da risolvere in Tribunale, e i periti di parte avversa, Salvatore Di Giacomo e Roberto Bracco, calcano la mano, sventolando, insieme a Libero Bovio e gli altri giovani intellettuali che vorrebbero dischiudere le porte del grande teatro a un’arte socialmente più impegnata, le bandiere della cultura che non può essere offesa e parassitizzata dalla volgarità guittesca e popolare (il tratto didascalico, semplicistico e naif con cui sono ritratti psicologicamente questi presunti parrucconi è l’unica pecca di misura che si può attribuire al regista Mario Martone: secondo me ce l’aveva con qualcuno di oggi, e gli è scappata la mano). E Scarpetta, quando proprio sembra afflitto e spampanato, tira fuori la recita più sontuosa della carriera – ispirato anche da un colloquio con Benedetto Croce, che è dalla sua parte. Sono in due alla fine a dirci che il teatro rende liberi: Eduardo senior, in questa azzeccatissima scena finale, ed Eduardo junior, che convince con tale concetto il riottoso fratello Peppino a sottoporsi alle prove di recitazione. La storia vera della querelle Scarpetta-D’Annunzio è affascinante e gustosa ma in questo film ognuno può seguire il filo che gli pare: il conflitto tra cultura alta e popolare, l’ambiente della Napoli postunitaria, la magia teatrale, le contraddizioni dietro le quinte tra l’attore e la sua maschera, il rivolgimento della tragedia in commedia in un film che peraltro abbonda nei colori cupi che disvelano il demoniaco nascosto nel riso sfrenato. Un Martone in forma strepitosa gioca a cambiare la prospettiva da cui osserva la macchina da presa, rimbalzandola tra il palco e il retroscena – anche in quell’appendice teatrale che è una tanto affollata vita domestica – e di ciò si serve pure per suggerire i diversi punti di vista interiori (molto presenti quelli del ragazzino Eduardo De Filippo). Quanto al trascinante Servillo, stavolta nessuno potrà dire che abbia ecceduto nell’istrionismo sino alla storpiatura deformante, e anzi a confronto di Scarpetta si ha la sensazione che qualunque eccesso attuale sia pur sempre una frenata o un pudore.

Qui rido io

Mario Martone

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2022-01-07T11:21:23+01:0017 Settembre 2021|Il Nuovo Giudizio Universale|

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