“Parli come un libro stampato” è un modo di dire che sta a metà tra l’elogio e la derisione, segnalando da un lato l’appropriatezza e dall’altro la pedanteria. Il film “La ragazza nella nebbia” parla come un libro stampato nel senso che proviene da un romanzo già concepito come sceneggiatura e che poi ha venduto tre milioni di copie nel mondo. La particolarità del caso è che l’autore del libro e della sceneggiatura, Donato Carrisi, si propone nella veste di one-man-show, cioè anche come regista. E il film, in verità, non scioglie del tutto il nodo se parlare o meno come il libro, patendo sia una difficoltà di recisione col cordone ombelicale cartaceo sia una discreta confusione nell’adozione del linguaggio cinematografico puro (inteso in senso ampio).
La storia si svolge nel climaticamente ingrato paese di montagna di Avechot nel quale l’ispettore Vogel (Toni Servillo) piomba per risolvere il caso di una ragazzina scomparsa. Quasi a ruota arriva il carrozzone televisivo e giornalistico, aizzato dallo stesso Vogel, che adopera una simile prassi professionale per “santificare” la vittima e creare un clima irrespirabile intorno all’assassino. I sospetti, e anche qualcosa di più, si indirizzano verso l’apparentemente mite professor Martini (Alessio Boni), un docente scolastico venuto dalla metropoli con la famiglia, ma la vicenda si rivela più intricata. Il punto di vista del narratore cambia (per una parte del film diventa quello di Martini) però la cornice è quella di un racconto in flash-back che l’ispettore, a vicenda conclusa e dopo essere uscito illeso da un incidente con l’auto ma con i vestiti misteriosamente macchiati di sangue, rivolge a uno psichiatra (Jean Reno).
Oltre al tema “ratto di minorenne con giallo”, garanzia di riscontro del pubblico, la storia non si fa mancare altri canovacci d’obbligo come: 1) sì, sì, sulle montagne sperdute sembrano tanto bravi ma i loro segreti ce li hanno e se li tengono stretti, oh, se li tengono stretti! 2) non parliamo poi di quelli che stanno pure nelle sette religiose 3) un omicidio diventa subito uno spettacolo televisivo e dagli addosso al sospettato 4) se il sospettato fosse innocente diventa subito uno spettacolo televisivo e dagli addosso all’errore giudiziario 5) a capo dello spettacolo televisivo c’è sempre una giornalista stronza che si venderebbe i figli per l’audience (non comincia a essere un topos sessista?). Insomma, un materiale che comincia a odorare di stantio se la critica sociale non viene condotta con solido realismo o al contrario con forza visionaria. Invece il film procede per strattoni stilistici disomogenei, inverosimiglianze eccessive, un gusto del colpo di scena per il gusto del colpo di scena oltre la soglia della ridondanza, una recitazione discutibile se si fa eccezione per le star (che però sembrano imprestate ognuna a servizio di un genere differente )- segnalo per tutte la mamma della ragazza scomparsa che sembra la versione opposta del neorealismo, quando si chiamavano sul set persone comuni scommettendo sula loro capacità di recitare – e anche una scenografia sconcertante, capace di mettere oggetti di design dentro interni di persone che hanno a stento di che vestirsi, e pure di rendere completamente e gratuitamente inafferrabile l’epoca se ci si basa sull’abbigliamento (va bene i valligiani, ma perché l’aiutante dell’ispettore si veste come se fosse negli anni ’30? né meno datate sembrano certe “trovate” per portare avanti la trama). Anche quel che c’è di buono, come l’evidenza dell’eccellente cultura visiva dell’autore, rimane allo stadio di citazione, e la fotografia come la musica si limitano a svolgere onestamente il proprio ruolo. Le cose più interessanti rimangono alcuni spunti letterari sull’origine del male ma, un po’ come tutto il film, depongono solo a favore della buona formazione e delle buone intenzioni.
La ragazza nella nebbia
Donato Carrisi
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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