Recensione del film “La donna dello scrittore”

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Inquadratura: al tavolo di un bistrot un uomo è seduto da solo davanti a un bicchiere di vino rosso. Parte la voce narrante: “Era seduto al tavolo da solo davanti a un bicchiere di vino. Rosso”.
Non è una scena che esigerebbe il coro greco, eppure il fenomeno si ripete con altre analoghe. Le spiegazioni possono essere tre: o è una scelta stupida e pedante, o il regista è talmente impacciato da non saper rendere la certezza dei gesti e la probabilità dei pensieri tramite i normali e numerosi mezzi espressivi che il cinema mette a disposizione, o si tratta di una pur opinabile scelta stilistica che si inserisce in un gioco di contrappesi, sfumature e dissonanze.

In fondo, si potrebbe dire, Christian Petzold ha scelto una strada originale: ha rimesso in scena un adattamento del romanzo Transit, che Anna Seghers scrisse nel 1944, e che raccontava le peripezie di un gruppo di rifugiati tedeschi che vogliono filarsela dalla Francia mentre i nazisti la stanno occupando, con gli abiti e le ambientazioni di adesso (per esempio i poliziotti in tenuta antisommossa). Perché i registi d’opera possono concedersi il lusso di comporre i secoli, magari abbigliando e contestualizzando Don Giovanni quale un guappo mezzo camorrista come fece Ronconi, e gli scenografi e costumisti del grande schermo devono cavarsela di compasso e colletto inamidato? Certo, giacché vagolava, questa voce narrante, poteva disturbarsi a spiegare quel gran casino all’inizio, dato che si tratta di un episodio storico assai singolare e francesi comandati dai tedeschi che rastrellano tedeschi in Francia non sono alla portata del primo che passa, e neppure del settimo o dell’ottavo. Ma che importanza ha soffermarsi sul dettaglio una volta che l’intenzione è quella di scompaginare la carte e universalizzare il transito, secondo un idealtipo astratto che raccordi la guerra mondiale, i rifugiati d’oggi e tutto sommato pure le anime dantesche? Però a quel punto il dettaglio andrebbe escluso anche nella sovrapposizione contemporanea: non dovrebbe accadere, come invece accade, che fugacemente (e quindi con il sospetto che la libertà stilistica abbia fatto amicizia con la sciatteria) si intraveda fuori al Museo di Marsiglia l’effigie dell’anno 2017 per segnalare la data della mostra in corso.

 

Il plot, nonostante tutto, ricerca una certa linearità. Georg (Franz Rogowski), al momento di fuggire da Parigi verso Marsiglia, entra casualmente in possesso delle carte di un scrittore che si è suicidato in un hotel: anche lui comunista aveva ricevuto dal consolato messicano assicurazione di un visto per la partenza. Georg vorrebbe solo consegnare la documentazione ma viene erroneamente identificato per quello prima che abbia tempo di dire bah, e dato che il console gli sventola in faccia il visto decide di approfittare del mutamento d’identità. Il console lo informa che Marie, la moglie da cui era stato abbandonato, viene dolentemente ogni mattina a chiedere se è arrivato. L’interrogativo sul quale il console propone di aprire un dibattito è: chi è che dimentica prima, chi abbandona o chi è stato abbandonato? che se non lo proteggono con il copyright Marzullo ci costruisce un grande rientro.

 

Attendendo la partenza Georg vaga, e frequenta il giovanissimo orfano di un suo compagno di militanza, un medico tormentato dal dilemma resto o me vò? e inevitabilmente la stessa Marie, che ogni tanto gli va a sbattere addosso. Il medico, nel film, sembra un acquisto di seconda mano, effettuato dopo avere riflettuto che un altro personaggio ci voleva, uno qualsiasi. Da Paula Beer che interpreta Marie con un distillato di azioni stilizzate l’istruzione attoriale ricevuta è stata probabilmente: “Sii bella! (e triste)”, e lei si è attenuta alla richiesta (e gli italiani, stregati, hanno inopportunamente cucito su di lei il titolo, “La donna dello scrittore” invece che l’originario “Transit”). ‘Sta partenza per il Messico rimbalza fra i tre personaggi viventi (Georg, Marie, il medico) e l’ombra dello scrittore, qualche altro rifugiato con i nervi a brandelli, e a un certo punto qualcosa accade.

 

Petzold sembra perso nell’equivoco che un’opera universale debba sommamente spogliare la verosimiglianza di un ambiente particolare, un abbaglio di estetica letteraria mica da ridere e che comunque lui non ha la costanza, e probabilmente neppure il talento, per condurre alle estreme conseguenze. Sì, qualcosa della claustrofobia che attanaglia il fuggiasco, del vuoto che lo isola dalla proiezione di sé nel mondo e dall’inverso; qualcosa del senso spasmodico di attesa dell’ignoto che dissolve i contorni del reale; qualcosa della soverchiante forza dell’inseguitore e della labile difesa dell’identità di fronte all’estremo, qualcosa di tutto questo allo spettatore perviene ma solo perché il nostro immaginario è pronto ad accoglierlo. Però è un sentimento che è facile confondere con la cattiva digestione se viene veicolato da ectoplasmi invece che da personaggi nei quali immedesimarsi.

 

 

La donna dello scrittore

Christian Petzold

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2020-09-11T15:11:49+01:0016 Novembre 2018|Il Nuovo Giudizio Universale|

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