La parola francese “douleur” esprime una gamma di sensazioni emotive forse più estesa di quella dell’omologo italiano “dolore”. Il dolore di cui si parla nell’omonimo film
non è quello del cordoglio ma dell’attesa angosciante, simile a quella che hanno sperimentato in Argentina i parenti dei desaparecidos, che ignorando la sorte dei loro cari non riuscivano a elaborare il lutto (e quindi non avevano accesso all’esperienza del dolore). Nel film si parla di un altro pezzo di storia, ambientata nella Francia collaborazionista di Vichy e tratta dal romanzo omonimo e autobiografico che Marguerite Duras ricavò dalle sue vicende. Quel che appare nel film è fedele al romanzo e alla vita della Duras, che scampò a una retata di resistenti (per merito di Mitterrand: lui non viene rievocato in alcun modo, ma sarebbe stata una figura impegnativa da gestire dentro una narrazione che, come dirò tra un attimo, tende presto ad a-storicizzarsi), nella quale però fu catturato suo marito, il poeta Robert Antelme, deportato in vari campi di concentramento, sino a quello di Dachau.
Il film, come il romanzo, non è la cronaca di quegli eventi ma la pura immersione nell’attesa impotente di Marguerite. E’ praticamente diviso in due tronconi, che corrispondono anche a due distinti racconti della raccolta “La Douleur”: nel primo Marguerite, pur di ottenere informazioni sulla prigionia di Robert e intercedere per abbreviarla, incontra quotidianamente, dentro un sottile gioco di seduzione, il collaborazionista Rabier, un individuo viscido eppure non privo di una certa pietas. Nel secondo, Robert, da Parigi, è stato trasferito in Germania e a Marguerite non resta, pure a liberazione avvenuta, che aggrapparsi alle notizie frammentarie e discordanti che provengono sulla sua sopravvivenza. Benché il passaggio dal primo al secondo troncone sconti un quarto d’ora buono di faticoso adattamento, il regista Emmauel Finkiel vince la difficile scommessa di mettere in scena la prosa della Duras (spesso materialmente presente in voice over) e di estrarre densità filmica da quell’asciuttezza intimistica come, per lo più, solo la Duras stessa, assumendo la regia o la sceneggiatura delle opere tratte dai suoi libri, era sin qui riuscita a fare.
Il film, coerentemente con il rigore letterario, trascura l’ambientazione storica (e i campi lunghi), espressa in pochissimi passaggi dei quali, tuttavia, il più efficace è quello che mostra Parigi vuota mentre i tedeschi la stanno abbandonando, gli aerei alleati sorvolando e Marguerite la percorre in bicicletta. Per lo più Finkel lavora sugli interni, lasciando che la fotografia li stringa addosso al corpo di Marguerite, predilige inquadrature parziali e perturbanti al montaggio, sfuoca costantemente lo sfondo e lo allarga, cerca di movimentare la stasi psicologica con sdoppiamenti allucinatori. La recitazione di Melanie Thierry, e la drammaturgia che transita per le sue alterazioni mimiche di una bellezza già di per sé irregolare e spigolosa, contraccambia lo sforzo del regista. Un dazio semmai lo pagano gli altri attori, che di fronte a un certo ascetismo espressivo dell’insieme rimangono spesso schiacciati tra la spinta a caricare all’eccesso gli sguardi, per controbilanciare, e un’acquiescenza passiva al registro che rende la loro prova un po’ smorta. In particolare Benjamin Biolay, nella parte complicata di Dyonis, l’amico e compagno che si prodiga per il ritorno di Robert e al tempo stesso l’amante che fa l’elastico con Marguerite (nella vita reale sarebbe poi divenuto il secondo marito) non è mai convincente, e tutto sommato è meglio che pensi a cantare.
La douler, il romanzo prima che il film, vuole purgare l’espiazione della confessione autobiografica con la rappresentazione di un universale, l’attesa dilaniante e incerta di una persona scomparsa e il senso di attaccamento a questo sentimento che finisce per sopraffare il legame affettivo e alimentarsi di vita propria. Non ne viene fuori un film troppo astratto: c’è qualche pennellata notevole, come lo sforzo disordinato che alcuni sopravvissuti ai campi fanno per rammentare dove sia finito Robert mentre curvano nei letti i colpi piagati, tatuati e scheletriti; e qualcosa che scende più banalotto, come la figura di una donna che attende con fiducia ottusa il ritorno della figlia dai campi ma che viene dipinta in modo troppo decorativo, con reazioni che hanno lo scoperto fine di fungere da controcanto per quelle di Marguerite.
La douleur
Emmanuel Finkiel
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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