Il tempo delle mele, si chiamava un celebre film pop degli anni ottanta su un amore adolescenziale. Il tempo delle pesche, potrebbe in alternativa chiamarsi quest’opera tenera, spigolosa, sincera e socialmente impegnata, che fa coincidere una stagione finale di raccolta agricola delle pesche con una storia familiare (che alla biografia della regista attinge) e una metafora di fine del mondo, un mondo, quello contadino, soverchiato dalla modernità che mostra il suo volto spietato e livellante anche quando avanza in nome della sostenibilità ambientale.
Ad Alcarràs, un paesino dell’interno catalano, la famiglia Solè si trova improvvisamente addosso un preavviso di sfratto dalla terra che coltiva da almeno due generazioni, la terra che il nonno aveva acquistato sulla parola, senza cavilli cartacei, dal vicino possidente, al tempo in cui lo aveva nascosto dai partigiani durante la guerra civile. In un posto normale (per come lo intendiamo noi, e non sempre in modo sano) sarebbe cominciata una battaglia legale, ma i figli del capostipite accettano con rassegnazione l’evento, riservando le proprie energie per l’ultima stagione di raccolto, oltre che per inveire contro il vicino quando propone loro di rimanere sul posto facendo i manutentori dei pannelli fotovoltaici che vuole installare, evidenziando che sarebbe anche più redditizio e ragionevole anziché spaccarsi la schiena con quelle pesche. Ma anche in questa furia serpeggia una sorta di accettazione dei rapporti di forza e prevaricazione: l’obiezione non è quella di andare a farsi fottere, visto che sta loro sostanzialmente usurpando le terre ed è una questione di dignità non rimanere come suoi salariati, ma di andare a farsi fottere perché raccogliere frutta è quanto sanno fare, e non è che si può cambiare a cinquant’anni.
La seduzione del posto fisso in realtà spacca la famiglia, e il più ostinato rimane Quimet, che ha ereditato la conduzione dell’impresa agricola. Per lui la terra è l’universo ma anche la dannazione: la fatica che si impone sempre in dosi supplementari, anche quando la colonna vertebrale gli chiede requie, e a cui associa il figlio più grande, l’adolescente Roger, con l’accortezza di non felicitarsi mai con lui per l’impegno perché ne attende piuttosto buoni risultati scolastici. Benedetti dunque i frutti della terra, e maledetti però perché cadono per terra e si guastano, o marciscono, o vogliono pagarteli due lire per via della grande distribuzione, tanto che si organizza uno sciopero, ma Quimet non ha tempo da perdere, lui e Roger non ne hanno, perché i frutti vanno raccolti, e Roger un giorno dovrà scappare, perché non ha una vita da perdere, ma Roger vorrebbe che il padre fosse contento di lui, e intanto con l’aiuto dello zio si coltiva la sua piantina segreta di marijuana, e quando può la notte si sfoga con la musica in discoteca e ancora si sfinisce, perché la fatica fisica dura prima che con il riposo si scaccia con altra fatica fisica, che un po’ è rabbiosa e un po’ manda via la rabbia. E intanto la famiglia, con il nonno e il suo sguardo desolato perché se firmava una carta invece che…, e la nonna, e i fratelli, la sorella che ora vive in città, i nipotini (il cui diritto al gioco è sacro, e fanno casino per tutto il film), sì, la famiglia si riunisce, festeggia, si incupisce, si sfilaccia, si divide, si ritrova, a volte viene giù male come le pesche marce, in altre somiglia allo splendore e all’innocenza della frutta stesa sotto la luce.
La rappresentazione dei conflitti morali che accende la frizione tra la difesa della memoria e dell’identità fondata sulla ripetizione dei cicli generazionali all’interno dei costumi e dei valori tradizionali, da un lato, e la corsa piallante della modernità, dall’altro, è una strada narrativa spesso battuta: la regista Carla Simon ha il merito di mostrare senza emettere un giudizio finale e l’originalità di accendere i riflettori su quello che dovrebbe essere il volto buono del progresso, la transizione ecologica, mostrandone il costo in termini sociali; e, al tempo stesso, nulla abbellisce del sacrificio, a volte ottuso, che segna il lavoro nei campi. Il film è un capolavoro di autenticità, favorita dalla scelta di attori non professionisti aggregati a lungo prima di cominciare a girare, e il suo pregio migliore è probabilmente la fortissima caratterizzazione dei protagonisti, che richiamano tutti la nostra empatia. Tecnicamente, ottiene risultati eccellenti l’uso massiccio del fuoricampo: quasi sempre il suono o la voce precede e sospende quel che avverrà nel campo e spesso in quel fuoricampo avviene qualcosa che ci viene fatto percepire attraverso gli occhi dei protagonisti. Le scene di intimità corale sono incantevoli come le riprese delle parti folcloristiche. C’è una vaga impronta neorealistica ma un paragone va fatto forse più con Ermanno Olmi, che tuttavia era superiore sotto il profilo formale ma pure più esasperatamente lento.
Un problema di ritmo tuttavia esiste: la regista, attenta a rendere nascosta la tensione drammaturgica ed evitare ogni scivolata sentimentalistica, usa un taglio perlopiù documentaristico senza averne una totale padronanza sul piano dei tempi e dei passaggi e, se è vero che questo contribuisce a scolpire meglio i personaggi e cogliere i dettagli, è anche vero che uno spettatore metropolitano, nella parte centrale del film, può incappare in diversi momenti di noia. Secondo me vale ampiamente la pena di sciropparseli, ma è giusto avvertire.
Alcarràs
Carla Simón
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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