In una coppia fanno tutti e due lo stesso lavoro, ma la donna ha successo e lui è un fallito: non gli rimane che buttarsi di sotto? Il mestiere che hanno in comune è quello di scrittore, e l’ultimo dispetto che il marito ammannisce alla consorte, nella baita di montagna che hanno scelto (specie lui) per l’ispirazione, è di sparargli la musica a palla mentre una ragazza con cui lei gioca seduttivamente è venuta a intervistarla: ma con quel baccano non si capisce una parola, neanche noi, e alla ragazza non resta che rinunciare. Un inizio potente, con una musica che annuncia la spigolosità ossessiva dei personaggi (non è un commento sonoro: è la musica che ascolta lui, non ci sarà mai una musica extradiegetica in tutto il film) e l’unica concessione ultra-espressiva della macchina da presa, che per il resto si allineerà a una fredda e giustificata spoliazione, a tratti temperata dal montaggio. Subito dopo, il figlio ipovedente, di ritorno dal passeggio col cane, trova sulla neve il cadavere del padre che è caduto dalla finestra. Emergono progressivamente dettagli del recente passato che potrebbero far pensare a un suicidio, ma la polizia trae dai suoi rilievi scientifici la concreta possibilità che sia stato spinto, e se così è accaduto non può che essere stata l’unica altra inquilina.
A sostegno di Sandra arriva un amico avvocato, e il film prende un’atipica impronta processuale. Si svolge infatti dentro l’aula di giustizia ma l’inchiesta è corredata di testimonianze e inattese registrazioni, sulle quali si innestano i flashback: per metà dunque è dibattimento e per metà è ricostruzione degli eventi passati e più in profondità anatomia, o più propriamente autopsia delle relazioni familiari. Già è noto che la verità processuale è diversa dalla verità dei fatti (su questo Sandra viene catechizzata anche dal suo avvocato), ma entrambe sembrano qui irraggiungibili. Cosa aspettarsi del resto se il testimone principale, il figlio Daniel, è un ipovedente e l’imputata deve correntemente passare da una lingua non materna, che non riesce a rendere in tutte le sue sfumature, alla lingua propria, attendendosi che l’esito auspicato lo renda una traduzione? La situazione è questa: la ricostruzione dei fatti vive sulla decostruzione delle parole, anche quelle già pronunciate prima del decesso; i fatti e le parole erano distorti dalla tensione crescente all’interno della coppia, ed erano posti in essere spesso come iperbole o con un secondo fine; con queste distanze non esistono davvero fatti e parole rivelatori, ma solo fatti e parole che si vorrebbero accaduti e che si interpretano secondo questa necessità. Sarà vero per tutti i protagonisti del processo, ma specialmente per il piccolo Daniel.
Ad aggravare tale groviglio dialettico-ermeneutico c’è la questione che Sandra e Samuel, profondamente egotici ed egoisti sia pure in un modo diverso, sembrano servirsi strumentalmente della loro interazione, ciascuno ai fini dei rispettivi progetti narrativi, viziandone in partenza la sincerità. Di più: ad un certo punto alcuni passaggi di un vecchio giallo scritto da Sandra, riecheggianti in quanto è accaduto, vengono estrapolati pretendendo di trasformarle in prove a carico. In effetti, il maggior fascino di Anatomia di una caduta è l’incestuoso abbattimento di questo crinale tra fiction e realtà, e l’impossibilità per l’una di divincolarsi dall’altra. Un discorso condotto con intelligenza, profondità, sotteso taglio filosofico che tuttavia nulla toglie (anzi) alla vibrante eccitazione drammatica dello spettatore. In questa complessa struttura filmica gli attori reggono bene il gioco, ed in particolare l’interpretazione di Sandra Huller, nel ruolo di un personaggio carico di ambiguità emotive, è una delle migliori prove recitative dell’anno.
Il titolo è una citazione di Anatomia di un omicidio di Preminger, e tra gli altri riferimenti è giusto citare Testimone d’accusa (verso il quale parrebbe volgere in una parte avanzata della pellicola). E però la cornice processuale è un anello debole, imbarazzante quasi, trattato con sprezzo della verosimiglianza pure per i temperamenti e i comportamenti delle figure processuali. Il pubblico ministero, con il suo cerbero persecutorio, sembra il critico gastronomico Anton Ego (gli somiglia anche un po’) prima che il topo Remy lo rabbonisca servendogli la ratatouille che rammenta l’infanzia; ma tutti si muovono sopra le righe, cadendo nel ridicolo mentre il giudice lascia che si esprimano come opinionisti piuttosto che testimoni (su tutti lo psicologo da cui era in cura Samuel). La loro macchiettizzazione non ha senso, pare quasi che la regista Justin Triet abbia voluto togliersi qualche sassolino dalla scarpa infangando le categorie. Il pressapochismo in questo trattamento della parte giudiziaria (non una cosa da nulla, visto che il film si svolge per metà in aula) viene anche impropriamente adoperato per semplificare l’arrivo delle “rivelazioni”, e alla fine tanto valeva che Triet inserisse in alternativa un coro greco per informarci dei fatti pregressi. A essere obiettivi, questa forma di pigrizia scalerebbe verso il basso un po’ di punti (di soli, in questa sede) nella valutazione. Ma in questi tempi, così avari d’intelligenza, facciamo finta di niente, teniamoci stretta la luce intellettuale che il film emana e consideriamo con favore il verdetto della giuria di Cannes che lo ha insignito della Palma d’Oro.
Anatomia di una caduta
Justine Trier
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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