Come sei pesante! Quest’espressione, normalmente di rimbrotto, suonerebbe alle orecchie di Anselm Kiefer quale pieno riconoscimento della sua incontenibile opera artistica. Pesante spiritualmente, nella sua ambizione cosmologica e interpretazione inizialmente fraintesa della storia tedesca; e materialmente, dato l’artista tedesco non disdegna materiali come il piombo, il laterizio o il calcestruzzo. E, inizialmente partito dalla fotografia, ha esteso la portata materiale della sua arte fino al gigantismo di installazioni (che sono spesso una costellazione di varie e stratificate opere), non agevoli da ospitare in sedi espositive fuori da quelle che Kiefer ha reso permanenti (la più importante in Occitania) e richiedenti, a causa del progressivo ingombro determinato dalla creazione, officine a loro volta sconfinate.
Opere incontenibili, appunto. Era possibile dunque farcele stare al cinema? Di certo, l’unico legittimato a provarci era Wim Wenders, imparentato a Kiefer, oltre che dalla nazionalità, dall’età anagrafica – sono entrambi nati nel 1945 – da una certa comune sensibilità visionaria e da un progetto che era maturato una trentina d’anni fa, e poi a lungo differito: è altresì, Wenders, il migliore sicuramente per approcciare in 3D il materiale di Kiefer, una scelta che – certo, senza equivalere allo sguardo fisicamente ravvicinato che tanta emozione produce dinanzi all’arte del maestro – riesce a far sforare le opere sino a un notevole livello di illusionismo percettivo. Il film scalda i motori proprio così: catapultando le opere in sala e le Frauen der Antike direttamente in poltroncina. Di seguito, ci rende familiare il rapporto totalmente esistenziale tra Kiefer e i suoi ambienti di lavoro (persino definirli atelier sarebbe riduttivo); e perfettamente connota le peculiarità di Kiefer, l’orientamento a rappresentare la distruzione ignea (l’arte di Kiefer è piena di rovine) e il ruolo di cartografo anomalo del paesaggio materialmente arso dalla storia (e archiviabile, in una delle sue invenzioni più affascinanti, financo in libri di piombo).
Il film dura un’ora e mezza, e in un’ipotetica divisione in tre parti, che va intesa con molta approssimazione, la seconda è incentrata sulla battaglia politica-filosofica-artistica condotta dal giovane Kiefer contro l’oblio riguardo alla memoria del nazismo. Anticipò, pur con un’analisi non del tutto convergente, il tema che Jurgen Habermas portò alla luce come “il passato che non passa”, in un celebre dibattito con Ernst Nolte nel cuore degli anni Ottanta. Kiefer cominciò fotografandosi in luoghi iconici (tipo davanti al Colosseo) con il braccio levato a mano tesa del saluto hitleriano; proseguì tornando a mettere in scena, con l’intento di riscattarli, i miti dell’antica civiltà germanica che i nazisti avevano sfregiato usandoli per i loro culti e la propaganda; e continuò rappresentando aberrate scene di guerra di aviazione, suscitando per ciò scandalo in varie circostanze, compresa la Biennale di Venezia del 1980, dove animò il padiglione tedesco insieme all’altrettanto controverso Georg Baselitz. Rivendicava il dovere, ancor prima che il diritto, di fare i conti con la storia, lamentando che l’oblio fosse il modo peggiore per comprenderla e indirizzarla verso un nuovo corso. A posteriori, può stupire che le sue intenzioni tanto fossero travisate. Va detto che Kiefer fu sempre molto intransigente nell’esercizio dialettico di difesa e memorabile fu la sua risposta in un’intervista nella quale dopo avere esplicitato la sua ripugnanza morale verso il nazismo aggiunse: “definirmi antifascista tuttavia sarebbe un insulto verso coloro che lo praticano con la loro militanza”.
Tale risposta (che cito a memoria, sperando di essere sufficientemente fedele nel riportarla testualmente) la ascoltiamo nel film, che mescola materiali d’archivio e ricostruzioni degli stessi in cui il ruolo di Kiefer più giovane viene interpretato da suo figlio. E chiarisce che l’obiettivo di Kiefer, pur focalizzato quasi ossessivamente sul fresco passato tedesco e intriso di politica, gravita nell’etere della creazione artistica e del pensiero poetico: la stessa linea del suo amico Paul Celan, di cui Anselm riprende i versi e recupera una bellissima lettura d’epoca (compare, in identica postura e attività, pure Ingeborg Bachman). Nella parte conclusiva Wenders cerca di raggiungere una sintesi conclusiva ed evolutiva, ma l’esito lascia a desiderare. Le allegorie di Kiefer vengono mortificate nel didascalismo (ad esempio, il suo transito in un tunnel del suo habitat artigianale), lenti e monotoni movimenti di camera occupano spazi che sarebbero stati più adatti a montaggi. Infine, una banalissima sovrapposizione tra il Kiefer bambino (interpretato dal pronipote di Wenders) e il Kiefer adulto, fusi in una consustaziazione generazionale, tira le fila in modo parecchio stucchevole. Wenders rimane un principe in questo genere tutto suo che interseca il documentario e una forma rarefatta di biopic. Ma è assai più a suo agio nell’investirlo della propria creatività quando riguarda la musica (il tenerissimo Buena Vista Social Club) o la danza (il meraviglioso Pina). Quando si tratta di arte, oggi con Kiefer e prima con Salgado, rimane un po’ soggiogato e timoroso di disturbare a infilarci troppo del suo.
Anselm
Wim Wenders
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.
Quanto siamo ripetitivi
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Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
-
Hai detto male di me
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Hai violato un confine
-
Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.
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