Far morire decine di persone in modo truculento rende migliori? A quanto pare la risposta può essere affermativa, a condizione che i decessi avvengano in scena, il suo allestitore faccia di mestiere il regista e l’elevamento valoriale si riferisca alla padronanza dei mezzi espressivi. Accade così che il coreano Park Chan-wook, autore del feroce e però strepitoso “Old boy”, successivamente imprigionato nella ripetizione dello splatter, e perciò giustamente accusato di noioso manierismo, svolti radicalmente, portando tuttavia nel suo bagaglio un formalismo tecnico mostruoso che lo consegna attualmente ai vertici contemporanei del cinema; e che realizzi un film di passione e morte, dove però il sesso, il delitto e la violenza rimangono quasi invisibili. Del resto, persino il protagonista di una travolgente storia d’amore può legittimamente chiedere all’amante: “Quando ho detto di amarti?”, e in effetti non lo ha detto esattamente bensì con una formula che in quel contesto si è rivelata una dichiarazione inequivoca e ineluttabile – assai più di una professione di sentimenti più convenzionali – che rende mirabilmente conto della congiunzione libidica e distruttiva del desiderio, indagata sottilmente in Decision to leave. Peraltro, in questo film dalla sceneggiatura giusta, senza troppe parole e mai una fuori posto, ogni comunicazione è un rimando, un’allusione, un simbolo, oltre che il tassello di una relazione. Se il filosofo Cassirer, inventore della definizione dell’essere umano come “animale simbolico” fosse ancora vivo, citerebbe questo film come esempio a sostegno.
L’intreccio amoroso nasce, in occasione dell’apparente suicidio in montagna di un uomo, tra Hae-jun (Park-Hae il), un integerrimo e gentile detective di polizia, sposato senza tanto entusiasmo, e Seo-rae (Tang Wei, abituale maliarda nelle parti che interpreta), la moglie della vittima, un’immigrata cinese che lavora come badante di anziani, che diventa presto sospetta di omicidio e nasconde diversi segreti, dei quali il primo di cui verremo a conoscenza è che in patria ha praticato l’eutanasia alla madre. La trama progredisce in modo originale, con uno spostamento di luogo, una mobilità del gioco seduttivo e dei moti interiori, il disegno di una china sottile fra la verità e la menzogna, un secondo evento criminoso dalla dinamica preparatoria sorprendente. E con un mutamento di habitat, dalla montagna al mare, con altri sfondi allegorici. La donna menziona nel film un detto confuciano, riguardo alla montagna, che è per i benevoli, e il mare per i saggi. Il detective è uomo puro che aspira ad ascendere moralmente: vi è anche costretto fisicamente da estenuanti inseguimenti sopra strade in salita relative ad altri casi e dall’indagine sulla morte del marito di Seo-rae. Lei si definisce donna di mare, ed è lì, sulla cresta scogliosa, che vorrà riportare il finale loro confronto/incontro.
Nelle due ore e venti della pellicola Park-Chan-wook tira fuori qualunque virtuosismo, mai fine a se stesso: passaggi vertiginosi di screen movie nello stordimento allucinatorio della moltiplicazione di schermi: immagini che anch’esse puntano all’allusione come un immagine dal drone che invece della auto riprende le loro ombre; tagli di montaggio destrutturanti; raccordi che mescolano l’ossessione mentale del protagonista con la scena che realmente si sta svolgendo. E ha pure preso una decisione del tipo: “Adesso piazzo citazioni cifrate della metà dei film di Hitchcock”, aiutato tematicamente dalla nota diffidenza del Maestro per la trasparenza dell’animo femminile (ma i riferimenti alla nobiltà registica classica sono diversi, ed è ormai costume che gli asiatici siano più puntuali nel raccoglierli degli europei). Nonostante la patina malinconica, tagliata sullo spirito del protagonista, la deriva tragica e la pressione del thriller psicologico, la scintillante ironia offre sequenze esilaranti, accentuate da qualche passaggio grottesco (al cinema d’autore adesso ci dobbiamo rivolgere, non alla letteratura, per godere la sfida di trasgressione delle leggi di verosimiglianza). Nonostante per l’intera durata sia palese lo sforzo di creare legami non immediati tra momenti diversi del film, l’esposizione è chiara e scorrevole. Notevole l’esito in certe fasi di tensione di far dialogare i due, che non parlano bene la stessa lingua (ricordo che la donna è cinese) mediante il traduttore di Google: a Larry Page non lo confesserei mai, ma ne viene fuori un effetto più struggente che straniante. La fotografia è eccezionale e la recitazione di livello, sino alle figure minori. Alla domanda su quali appunti si possano muovere a Decision to leave, risponderei: nessuno. Se come nello sci ci fosse una classifica per la combinata, quasi non mi verrebbero in mente rivali recenti. Forse proprio questa perfezione, anche formale, qualcosa raffredda (benché il finale sia toccante) e mi fa pensare che nel tempo l’opera svanirà nell’animo e nella memoria assai più di altre che, meno combinatiste, hanno avuto il coraggio di rimestare nello squilibrio la potenza dirompente che le ha resi immortali. Questa almeno è la sensazione per il futuro: per il momento mi si è impressa molto bene.
Decision to leave
Park Chan-Wook
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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