Il soggetto, la storia, di Denti da squalo sono una genialata. Walter, un bambino di tredici anni, sta affondando nel trauma per la morte di suo padre, sfortunata, coraggiosa e da persona per bene, maturata in un contesto operaio. A parte il dolore, però, Walter è afflitto anche dal cruccio che il padre sia morto da coglione, e ha una ragione specifica e un po’ torbida per fare questa considerazione. Intanto, in una delle sue scorrerie in bici nell’interno del litorale di Ostia, entra in una villa apparentemente abbandonata e ha l’idea di farsi un tuffo nella piscina. Altro che il problema di non bagnarsi se non è finita la digestione! Il ragazzo si imbatte addirittura in uno squalo, esce giusto in tempo per non rimetterci le penne. Rimane affascinato dall’animale e quando torna viene male accolto da Carlo, un bulletto più grande che sostiene di essere il custode della villa e lo minaccia. I due però cominciano a stringere amicizia, a sufficienza perché Carlo porti sulla cattiva strada Walter e lo presenti alla banda di balordi per i quali fa dei lavoretti. Ma non è che Walter, per qualche ragione, quella strada ce l’ha già dentro? E che ci fa uno squalo in quella piscina? E che fine avrà fatto il terribile Corsaro, il delinquentone che si era impossessato di quella villa? Forse detta così non pare questa genialata, perché non voglio superare i limiti dello spoileraggio. Vi assicuro però che lo squalo ha un senso, che sulla carta alcuni snodi narrativi si incastrano bene e il plot scelto per questa storia di formazione suburbana è molto originale e accattivante. Ho detto: “sulla carta”. Cioè gli sceneggiatori Valerio Cilio e Gianluca Leoncini, la storia sono stati bravi a pensarla. Se però dalla carta ci spostiamo “sullo schermo” cominciano i dolori. A cominciare, invero, dalla stessa sceneggiatura, una volta che andiamo a pesare i dialoghi, l’artificialità e l’eccesso di spiegazioni che li contraddistinguono.
Dal punto di vista puramente cinematografico il regista esordiente Davide Gentile non fa una cattiva figura: se la cava nel mescolare la computer grafica con l’animatronics, nel complessivo effetto vintage (squalo spielberghiano compreso), nella creazione di qualche tenera atmosfera. Poi però, mentre Walter riesce a mettere un punto alla sua estate nella quale di fatto si capisce cosa farà da grande, il film, cosa deve fare da grande, non lo decide: e non trova un equilibrio accettabile fra la crudezza realistica del genere suburbano e l’inverosimiglianza fantastica parente dei film di animazione. Ne viene fuori solo un’inverosimiglianza perpetua (e che sarebbe estremamente fastidiosa se la sua ingenuità naif non suscitasse la simpatia che suscita), che un po’ gioca col caricaturale e un po’ ci finisce quando non vorrebbe. In questo senso il probabile modello estetico Lo chiamavano Jeeg Robot (il cui regista è qui anch’egli all’esordio come produttore di un film non suo) non può dirsi ben ricalcato. Veramente inaccettabili sono le parti che mettono in scena la relazione tra Walter e la madre, quelle dei rapporti interni alla baby gang, e stendiamo un velo sulla psicologia di Walter, sui dettagli delle azioni e le apparizioni del padre in stile usa la forza, Luc.
A ogni bambino che si misuri per la prima volta davanti alla macchina da presa, e come protagonista, vanno sempre fatti i complimenti: facciamoli pure a Tiziano Menichelli, allora, ma senza sperticarci (molto meglio Stefano Rosci che interpreta Carlo). A giudicare da questo film, Virginia Raffaele mi pare negata per una parte drammatica. Peccato essersi goduti per poco tempo Edoardo Pesce, il Corsaro: come entra lascia il segno, pure a qualcuno in scena. La colonna sonora e la foto sono piuttosto convenzionali. Poi dipende: se volessimo classificarlo come un film per ragazzi che sceglie alcune metafore edificanti per parlare della paura e della libertà, dovremmo ridimensionarne i difetti. Non mi risulta si proponga per tale. Tocca a voi, allora: se siete disposti a guardarlo in questa chiave, e abbandonarvi come foste ragazzi (un po’ all’antica), passerete un’ora e quaranta piacevole e finanche toccante.
Denti da squalo
Davide Gentile
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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