In questo film si vede un bel po’ di monnezza, e per giunta quella che viene recuperata dalle latrine. In questo film non c’è azione. Non c’è sesso. Non corteggiamento. Non pettegolezzi, non denuncia sociale. Non una trama, non esattamente. Per lunghi tratti non una parola. Neppure uno che s’incazza. Niente effetti speciali, è girato tutto a mano. Per lo più seguiamo quello che fa il protagonista, quasi sempre le stesse cose. Quella che prende la maggio parte del tempo a lui, e quindi anche a noi che guardiamo lo schermo, è il suo lavoro. Ah, e che fa di bello, di cosa si occupa? Pulisce i cessi pubblici a Tokyo. Sì, è per quello che facevo riferimento alla monnezza, ma era per un espediente per catturare la vostra attenzione dal primo rigo, in realtà lo vediamo per lo più rimestare col disinfettante dentro il water. Beh, pure cambiare la carta igienica, e pulire con vigore il vetro degli specchi, e cortesemente interrompere, e attendere fuori quando arriva qualcuno con la patta che ha premura di s-cernierarsi. Ci ho tenuto ad avvertirvi, non volevo infiocchettarvi la questione, funziona così e il problema è che dura due ore e tre minuti. Ma cosa avete capito? Non è mica un problema perché è lungo. No! È che per quel che mi riguarda poteva durare benissimo altre sei ore, sarei rimasto lì intenerito e ipnotizzato.
Chi ha la bontà di seguire ad ampio spettro gli scritti di questo recensore starà sorridendo maliziosamente: questo c’ha proprio il vizietto, co’ ‘sta storia della toilette (per chi non ha questa bontà: il mio ultimo romanzo di qualche mese fa, Una gran, è il monologo di un tizio seduto sul water per tutto il libro). Sareste su una strada sbagliata: l’ambiente e il mestiere sono nulla più che la radicalizzazione di una scelta già radicale di misticismo cinematografico, sgombrare la pellicola da tutto ciò che non è essenziale nonostante di solito sia l’essenza di un film, arrivare a una sorta di grado zero che lascia spazio quasi solo all’osservazione del quotidiano e dei suoi dettagli. Con Perfect days, Wim Wenders non ha fatto poi nulla di troppo diverso di quando gira documentari: solo che davanti alla telecamera non ci sono i cantanti cubani o quelli portoghesi o Anselm Kiefer che, oltre a essere intrinsecamente interessanti loro, li intervalli con la musica o le opere d’arte, ma un onesto e meticoloso esecutore del lavoro più umile del mondo, con alcuni hobby, che mette in scena silenziosamente la sua dignità e la capacità di trarre soddisfazione dalle piccole cose e dalla loro ripetizione rituale. E incredibilmente funziona.
Siamo all’opposto dei vari libercoli trend che beatificano la minuzia spoglia del quotidiano, che sono sovente velleitari, stucchevoli, posticci, falsamente consolatori e paradossalmente tronfi. Perfect days è alieno da ogni retorica e trabocca di sincerità, e contiene alcuni specifici elementi di forza. Uno è che Wenders filma come respira, con una naturalezza per nulla ostentante che rasenta ormai la perfezione. Un’altra è l’attore che interpreta la parte del protagonista Hirayama, Koji Yakusho, sulla cui cangiante espressività (altrettanto aliena da eccessi) il regista – in soli diciassette giorni di riprese- ha fondato la tonalità emotiva della sua opera. E ancora, che benché le tracce narrative siano rade e brevi, Wenders le riveste di un’intensità eccezionale e fa germinare una quantità di informazioni probabili che lo spettatore è chiamato a completare (una riguarda le origini sociali di Hirayama, e gli conferisce un tocco di spessore in più).
Poi, ovviamente, che tutto si svolga in Giappone, e perciò risulti esteticamente sostenibile, visto che persino le toilette godono di un’attenzione al design, nonché lineare e coerente: perché è davvero dei giapponesi l’arte e il piacere di ricercare la variazione invisibile, persino nel mutamento della luce tra le foglie (che Hirayama fotografa ogni giorno, per poi sviluppare e archiviare; mai sia detto che trascorra un giorno senza questo scatto, e senza la lettura serale di un libro) ed è davvero dei giapponesi quello sforzo di nobilitare con l’impegno qualsiasi compito ripetitivo, in questo modo, come suggeriva James Hillman, svestendolo della routinarietà attraverso la precisione e assumendolo come vocazione (non vi scoccia, vero? se vi informo o ricordo che in questi mesi è uscito anche il mio saggio Quanto siamo ripetitivi…Non inserisco mai spottoni ma quando mi ricapita un film che ne tira dentro due come l’avesse fatto apposta!). E poi c’è l’elogio discreto della collaborazione sociale intorno al bene comune, e ci sono le videocassette vintage di Lou Reed, Van Morrison e compagni che l’analogico non-sa-nemmeno-cosa-è-Spotify Hirayama spara nella sua macchina (eh, ma ai giovincelli che le ascoltano sul sedile a fianco non dispiacciono mica), a completare una certa autoidentificazione di Wenders e dell’epoca che gli è cara. E dulcis in fundo, quel ricalcare le atmosfere del maestro Ozu.
Sostenere che sia il miglior film dell’ottantenne Wenders è francamente un insulto alla sua luminosa (anche se da tempo declinante) carriera, e conferma che certi spigolosi capolavori erano tuttavia indigesti a chi li incensava per non fare la figura del fesso, all’epoca in cui fingersi intellettuali attribuiva ancora un certo status. Ma è un film bello, speciale, serenamente zen, empatico e umanista, umanista sì ma con qualche angelo, come stessero volando ancora sopra il cielo di Berlino.
Perfect days
Wim Wenders
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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