A un certo punto della mia vita ho dovuto trarre questa dolorosa conclusione rispetto a un profilo dello sfaccettato animo umano: se appena scorge un pertugio di possibilità, la gente ruba le penne. E se avessero incubato questo male nei primi anni della socializzazione, partendo dalle matite? Migliaia addirittura (che oltretutto, li voglio vedere a temperarsele tutte): così resoconta uno dei docenti di una scuola media tedesca in un montante e collettivo fenomeno di indignazione, tanto più che spariscono anche altre cose, da mesi, e il colpevole bisogna snidarlo. Del resto, l’istituto rappresentato ne La sala professori si vanta per bocca della sua preside di applicare la tolleranza zero. In nome di questo principio i docenti procedono a perquisizioni semi-coattive sospettando secondo pregiudizi etnici, con la costernazione di una giovanissima insegnante al suo primo incarico, la professoressa Carla Nowak, di origine polacca: applica, la gentile ragazza, una maieutica piena di entusiasmo idealistico, profondo rispetto e tolleranza, con qualche impronta steineriana e qualche caduta new age nella ritualizzazione dell’armonia interna. Pare l’unica che abbia il senso del suo ruolo e una conseguente, istintiva empatia verso i suoi alunni, una seconda classe nella quale abbina insolitamente la cattedra di matematica e quella di educazione fisica.
Ha giustamente il chiodo che in quella sede troppo si inclini a scaricare tutti sui ragazzi, compresa la colpa dei furti, e piazza la webcam puntata sulla sua giacca ad altezza di portafoglio nella biblioteca, aperta solo a docenti e personale. La rivelazione è un’amara sorpresa, che lei cerca di risolvere con la stessa franca bonomia che applica nelle relazioni con gli studenti. Ma la questione scatena un putiferio, prima contro chi è stato colto in flagrante; poi contro di lei, che il video, insomma, è una violazione della privacy in uno spazio pubblico, poi contro un ragazzino genietto che stava già sulle scatole a tutti i compagni perché è bravo e dopo sta sulle scatole perché è imparentato con chi è accusato, e così via, in un crescendo di accuse, intolleranze, falsità, vigliaccherie e regolamenti di conti che non si riescono mai a regolare (a margine di ciò vorrei sottoporre alla riflessione dei lettori un’interessante questione giuridica: una videocamera che inquadra solo la mia giacca sulla postazione che sto occupando e dalla quale mi sono temporaneamente alzato, e che dunque può riprendere solo il braccio di chi si avvicinasse per frugarmi nelle tasche, può davvero definirsi puntato su uno spazio pubblico? Secondo me no, e se avessero trattato la questione in questi termini si sarebbero risparmiati un sacco di grane. Vero, si sarebbero risparmiati pure il film, e sarebbe stato un peccato).
La genialità di La sala professori è di partire da un episodio minimale per mettere in luce l’attuale crisi delle relazioni, a partire da quelle interne alla scuola certo, ma con la chiara ambizione di scoperchiare una pentola universale: la frizione tra una serie di regole che non arrivano a conciliarsi, rendendo impossibile ogni dialogo che ecceda la dimensione duale. Vano è nella scuola il tentativo di tenere tutto insieme, dalla vecchia severità marziale al concetto di spazio sicuro, dalla logica meritocratica al terrore di scontentare la clientela: del tutto utopistica in questo contesto diventa la capacità di preservare l’autorità convertendola progressivamente in autorevolezza. La prima a inciampare ripetutamente nell’intento è la professoressa Nowak: per la quale saremmo pronti a sfilare con la t-shirt siamo tutti la professoressa Nowak, per quanto ci conquista grazie a coraggio, onestà, candore, dignità pedagogica. E con l’opaco finale (opaco, come è giusto che sia, ma molto bello) comprendiamo che è un inciampare, però non un fallire (e probabilmente mai lo sarà). E tuttavia in un contesto tanto decomposto nel coordinamento e persino incapace di crearsi una passabile identità formalistica, è lei stessa ripetutamente inadeguata, con i suoi slanci e pentimenti (sui mezzi, mai sul fine) e le sue fughe davanti alla tensione, come accade in una riunione con i genitori che probabilmente le costerà quattordici anni di psicoterapia (e dico rivolgendosi a un cognitivista, nemmeno a un freudiano). Lei per prima è vittima di un sistema che assomma torti non attraverso decisioni sbagliate bensì mediante perpetue indecisioni, delle quali le decisioni sbagliate sono solo lo stadio transitorio di una fallace e interminabile dialettica profondamente anti-interattiva (e come tale finta dialettica: finta pure se ne volessimo parlare in termini hegeliani, peraltro).
Il ritmo e l’andamento della storia sono da thriller (che ansia!) e giustamente ciò sottolinea la colonna sonora di Marvin Miller che viene a stridere nei momenti giusti, anche troppo, al punto che diventa come quando nei western il sonoro ti fa capire che si è alzata la colonna di fumo indiana prima che la vedi. Non era facile condurre il discorso e tenere questo passo, ed era così inevitabile che il buon esito del binomio passasse per qualche semplificazione. In termini categoriali ce ne sono un po’ tante: sì, i genitori che si montano reciprocamente sul gruppo Whatsapp meriterebbero uno studio sociologico ma un’aggressività tanto monocorde non mi è parsa credibile. E i professori, va bene, con l’andare avanti del mestiere tendono alla disillusione dentro un’istituzione sclerotizzata, ma possiamo davvero credere che se non sono al primo incarico costituiscano un branco rancoroso al quale l’ultima cosa di cui fotte sono gli alunni, pure presi singolarmente? Voglio dire: La sala professori è un film di valore universale, ma non si è fatto alcuno scrupolo di piallare la varietà del plurale per non renderlo d’intralcio alla fluidità della trama. Molto meglio con i ragazzi, salvo un episodio legato all’intervista (indovinate a quale docente) sul giornale di scuola, che marcia come se i protagonisti del Signore delle mosche di Golding, una volta cresciuti – chi ce l’ha fatta – vengano trasferiti in blocco dentro Quarto Potere. Sul quadro della verosimiglianza il peggio, però, non è un gruppo ma la persona identificata come colpevole (e va bene il garantismo, ma userei al massimo la condizionale, non il condizionale, riguardo al fatto commesso), la cui caratterizzazione ha una credibilità che alla lunga trovo pari a zero.
La scelta del formato 4:3 da parte del regista Ilker Catak è stata molto felice per restituire il senso di angustia e compressione psicologica, meno per comporre al meglio le numerose scene collettive. Tra i fondamentali del cinema merita il massimo del punteggio la sceneggiatura, sobria, tagliente, esemplare nel riprodurre i nuovi tic linguistici e l’inazione di certe parole: senza una caduta che è una. Un altro gran pregio è la recitazione: non solo quella, veramente superba, di Leonie Benesch; è la direzione dei ragazzi che ha del miracoloso, un risultato probabilmente superiore al capolavoro del genere, La classe di Cantet, dove l’età degli studenti era più alta. L’opera è davvero coinvolgente in termini emotivi. E, ritorno sul punto, è riuscita la scelta di dare conto, attraverso la scuola, di questo stato letale in cui versano i ruoli e l’idea della responsabilità.
La sala professori
İlker Çatak
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
Volevo fare un piccolo regalo ai lettori del wrog, in questa Pasqua tanto strana. Così ho pensato di raccogliere in un eBook tutte le recensioni cinematografiche scritte in oltre tre anni.
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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.
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