Il sol dell’avvenire è ormai alle nostre spalle? L’ultimo, strepitoso, Nanni Moretti propone da subito un tuffo nel passato. Sono i giorni del 1956, quando i carri armati sovietici stanno entrando a Budapest. Un circo ungherese è in tournée in Italia, ed è appena arrivato a Roma sotto il patrocinio di una sede locale del Partito Comunista. Gli artisti invocano la solidarietà, i militanti – che, nella scena iniziale, hanno appena assaporato la gioia dell’illuminazione stradale della via – sono propensi ad appoggiarli, il dirigente Silvio Orlando riluttante in attesa delle indicazioni di Togliatti che (non è un buon segno!) se ne è intanto andato nel pieno dello spettacolo. Ma questo non è il film! O meglio, è il film che sta girando il regista Giovanni (ovviamente Moretti), il personaggio su cui è incentrato Il sol dell’avvenire. Ah, dunque dal passato subito veniamo riportati nel presente? Macché. Sì, il plot si svolge ai giorni nostri, e però veniamo scaraventati all’indietro, nel cinema morettiano degli inizi, fra gli anni Settanta e Ottanta, quelli più iconici ed originali, quelli che se ne cercava sempre qualche pezzettino anche quando il regista aveva assunto una china ancora più diaristica o si era poi progressivamente orientato verso il dramma borghese, quelli in cui non sta a lato di un altro attore scelto come protagonista ma occupa e ingombra la scena al punto da far venire a Dino Risi voglia di dirgli: “Nanni spostati, che voglio vedere il film”. Siamo così tanto dentro quel Moretti che da subito veniamo risucchiati in un’antologia di auto-citazioni (l’ultima cosa che intendo fare è spoilerarvele).
Allora è come se fossimo al cineforum? E non facciamo il dibattito solo perché Moretti prenderebbe cappello gridandoci: “No, il dibattito no!”? Dico di più: il film non è solo rievocativo, e dunque centrato sul passato, ma Giovanni è passatista. Nei fatti, intanto: questa idea di girare un film politico! I suoi stessi attori sono convinti (specialmente la pasionaria interpretata da Barbara Bobul’ova) che al fondo sia un film sull’amore. Ma soprattutto nel radicamento dentro le sue convinzioni, che lo fanno essere pervicacemente fuori tempo (anche in senso tecnico, quando canta a squarciagola le canzoni in macchina), a cominciare dal suo modo di fare cinema (metaforizzato dal circo ungherese) così inadatto a essere proposto a Netflix, che pure a un certo punto sembra essere la soluzione per condurlo a termine dato che fallisce il produttore (Mathieu Amalric): ma ci va uno sviluppo della storia, un’estetica differente, quelli trasmettono in 190 paesi (gli ripetono ossessivamente i rappresentanti del colosso americano). Giovanni è in crisi profonda: artistica e personale. Questa incapacità di adattarsi ai mutamenti gli rende incomprensibile e incompreso tutto, anche la figlia ventenne – che un giorno gli presenta il suo fidanzato di 50 anni più grande (Jerzy Stuhr), vedi allora Giovanni, che non è solo una questione di anagrafe trovare un’intesa con gli anni che scorrono – e soprattutto la moglie (Margherita Buy), che fa la produttrice, ma per la prima volta lavora con un altro regista, e non ne può più di Giovanni, solo che non riesce mai a trovare il coraggio per dirglielo, per lasciarlo, da mesi cerca assistenza nelle sedute con uno psicoanalista che esercita con difficoltà oltre l’età della pensione.
Vi ho detto la verità, riguardo al predominio del passato e del passatismo, ma in realtà vi ho ingannato. Nel senso che il recupero del passato si traduce in una fantastica libertà espressiva che rende il film gioiosamente surreale e di imprevedibile discontinuità nei registri; e che il personaggio in qualche modo si emenda, e non è poi più tanto sicuro che il film sul 1956 si concluda con il suicidio del dirigente Silvio Orlando per la disperazione di doversi separare dalla sua idea del comunismo, mettendo in scena simbolicamente il suicidio di Giovanni che ha lo stesso rapporto con il suo cinema. E su tutta una serie di questioni di principio su cui pareva inamovibile, Giovanni molla la presa (del genere: ferma per ore la scena conclusiva di un film altrui per convincere il regista a non completare l’ultima scena violenta, l’uccisione con un colpo in fronte di un uomo inginocchiato, eccependone l’inadeguatezza estetica, il male che instilla nei realizzatori e negli spettatori, e tiene una dissertazione su come si è comportato Kieslowski quando ha dilatato la violenza ma allo scopo di suscitarne orrore, e chiama a testimoniare Renzo Piano, Chiara Valerio e Corrado Augias, e ci prova pure con Scorsese ma purtroppo c’è la segreteria telefonica, e alla fine lascia che sia). Non è soltanto una resa. Forse il cinema puro sarà salvato dalle produzioni coreane. Forse i giovani saranno capaci di parlarsi con schiettezza. Forse nel 1956 non è andata veramente così, o comunque la prossima volta potrebbe andare meglio. Forse se la figlia glielo presentava un mese prima il fidanzato-nonno l’avrebbe presa male, ma ora (lo dice lui stesso), no, adesso è contento.
Il fatto è che anche Moretti ci ha ingannato. Non era solo un film su Giovanni che è in crisi e Moretti che fa Giovanni in un film dove Giovanni vuole fare un film, tra il politico e il personale, sul 1956. Era anche un film su Giovanni che vorrebbe fare un film tratto da Il nuotatore di John Cheever. Era anche un film su Giovanni che ha in testa da tempo una specie di musical, un film su 50 anni di vita di una coppia raccontata attraverso le canzoni, e in effetti riesce a realizzarlo dentro Il sol dell’avvenire che è proprio un mescolamento e incastro continuo di vari piani reali e varie finzioni in cui tutti gli attori del film si mettono di colpo a cantare e danzare Voglio vederti danzare di Battiato, Giovanni mentre discute del film sul 1956 sulla scena rifiuta di fare la foto con Togliatti, al termine sfilano in una marcia utopistica, avveniristica e rigeneratrice non solo i protagonisti di questo film ma anche quelli dei vecchi di Moretti. Era sì un film dove Moretti torna a fare Moretti ma c’è tanto Fellini (su tutto, ovviamente 8 e ½), parecchio Woody Allen, e un po’ di Kitano. Era un ritorno alla commedia ma sotto sotto è più drammatico di quelli che lo hanno preceduto. Era sì, la voce sentenziosa di Moretti ancora più rallentata e rallentante che nel cinema delle origini (deve essere così, gli anni sono passati e stai facendo un film sull’ostruzionismo all’upgrade!) ma pure uno sguardo insolitamente benevolo e compassionevole verso tutti i protagonisti. Era la solita voce supponente che però suppone progressivamente in modo cartesianamente cogitante. E comunque è inutile lamentarsi che Moretti sia egotico se poi noi stessi ci soffermiamo solo su Moretti (e che voleva dire? E i suoi tic, e le nevrosi…). Stavolta si è messo davanti perché potessimo guardare il film. Onirico, divertente, tenero, poetico.
Il sol dell’avvenire
Nanni Moretti
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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