Scegliere voi quale sia la stranezza. L’umore malinconico e introverso di Luigi Pirandello che non riesce a trovare la chiave risolutiva di una sua scrittura, e vive in un mondo per metà abitato dai personaggi delle sue opere (specie quelli ancora in embrione), ai quali dichiara di concedere regolare udienza la domenica mattina? Che una coppia di becchini (pure nel cinema adesso! Per l’impennata di popolarità dei becchini nella letteratura rimando a questo articolo) si diletti nella produzione, regia e interpretazione di commedie in un paese siciliano e si senta pronta a tentare il salto verso una tragedia, vabbè una tragicommedia? L’abbinamento fra Servillo e il duo Ficarra-Picone? Quella nebbia che cala sul confine incerto tra realtà e finzione, eversivamente praticata da Pirandello?
Certo è che con il film La stranezza Roberto Andò rende un magnifico omaggio allo scrittore che fu Premio Nobel, ed in particolare alla sua pièce Sei personaggi in cerca d’autore, rendendosi più pirandelliano di lui, oltre che nello sviluppo della trama, sfruttando al meglio la possibilità di moltiplicare il tipico gioco di specchi dell’autore con la lente cinematografica. La porosità tra realtà e finzione è già nello spunto iniziale, storicamente vero, ossia la visita di Pirandello a Giovanni Verga, per gli ottant’anni di quest’ultimo, e il borbottio affettuoso dell’autore dei Malavoglia verso il sovversivo sperimentalismo del più giovane collega (vero più o meno, nel senso che Pirandello fece un discorso in onore di Verga al teatro di Catania e le riserve di Verga non vennero formulate in quell’occasione). Andò immagina che, in quella stessa circostanza, Pirandello approfitti dell’occasione per fare un salto al paese natale di Girgenti, dove è appena morta la sua anziana tata, e decida di occuparsi della sepoltura, che si rivela tuttavia burocraticamente più spinosa del previsto. È qui che conosce Onofrio e Sebastiano, i due becchini che scrivono teatro e ignorano di trovarsi di fronte al Maestro fino a quando non lo sentono chiamare dalla delegazione che è venuto a prenderlo per accompagnarlo a Catania. I due sono alla vigilia della loro rappresentazione La trincea del rimorso ovvero Cicciarello e Pietruzzu, che coinvolge una parte del paese nella recita e la restante come spettatori del rilevante evento locale. Che bello sarebbe se ci fosse Pirandello a guardarla, è il sogno di Sebastiano, che fa circolare quest’illusione nella sua compagnia. E quello viene per davvero! Vuoi vedere, si sarà detto, che da questa scalcinata ma genuina messa in scena riesco a distillare la pozione che mi necessita per scacciare i demoni della crisi creativa e mettere ordine (o pirandelliano disordine) in quella sceneggiatura che mi logora svicolandosi dal mio controllo, in balia di aspiranti personaggi pronti a ogni forma di tirannia per essere inclusi nel testo?
La storia quindi intreccia e alterna i due piani, i tormenti di Pirandello e le vivaci e allegre tensioni della comunità che si immerge nelle prove e attende lo spettacolo: e poi viene il giorno dello spettacolo e qualcuno in platea se la prende per l’apparente ispirazione ai fatti torbidi del paese, così il pubblico si commista con il palcoscenico, e dietro le quinte altre scorie di realtà, queste di natura sentimentale, sono pronte a proiettarsi anch’esse in scena. O è la fantasia di Pirandello, che assiste alla recita con l’immobilità e il profilo fantasmatico del convitato di pietra? Ma se così fosse, perché i protagonisti sono poi invitati alla prima romana dei Sei personaggi in cerca d’autore, che vedremo realisticamente terminare in quel fiasco che fu, con gli spettatori perturbati che quasi cercano di aggredire Pirandello gridandogli “imbroglione” e “manicomio” – evidentemente era riuscito a scalfire le loro certezze fisiche/metafisiche (e poi, vivaddio, bei tempi se la prendevano così sul personale a teatro invece che facendo a botte per un parcheggio).
Dopo Qui rido io, pure con Servillo (alla cui attorialità era richiesta la compenetrazione in un temperamento opposto), il teatro torna di nuovo al centro di un film, che anzi può definirsi come metateatrale. Ma la qualità speciale che Andò riesce a esprimere nella sceneggiatura è di tenere alto il profilo letterario, aperto continuamente a mille aperture di senso, e di costruire però un film godibile anche da un pubblico meno esigente, che rispetto ai coevi di Pirandello si ritrova certo meno stordito dagli interscambi fra realtà e finzione e dalla calamitosa prospettiva di reclamare per sé il palcoscenico. Decisiva al riguardo si rivela la scelta di Ficarra e Picone: un’operazione analoga condussero i fratelli Taviani, che in Kaos si affidarono a Ciccio Ingrassia e Franco Franchi. Ma si trattava solo di uno degli episodi (La giara) e la richiesta recitativa era più monocorde. Ficarra e Picone, pur esibendo diversi momenti di schietta comicità, si adattano alla perfezione all’ondulante varietà di registri del film e mostrano una maturità artistica, si spera messa ulteriormente a frutto in futuro. Tutto il cast, peraltro, dai cammei (Renato Carpentieri, Luigi Lo Cascio) alla frotta di caratteristi, regala una gagliarda e rumorosa interpretazione collettiva degna delle storiche compagnie dell’arte.
La stranezza
Roberto Andò
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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