“Senza offesa, vorrei parlare con il re”. Gli aristocratici tesorieri reali del regno di Danimarca – siamo nel 1755 – a quel punto si sganasciano dalle risate. Hanno davanti un capitano d’esercito congedato dopo venticinque anni di onorato servizio, ma pur sempre un pezzente venuto su dal nulla che ha appena domandato un’autorizzazione per coltivare in brughiera e creare una colonia; e di fronte al loro sprezzante scetticismo chiede pure di scavalcarli e parlare col boss, del quale peraltro parlano come di un alcolizzato rimbecillito. Però, quando il capitano si accomoda fuori in attesa della decisione, riconsiderano la questione con un respiro più ampio. Cosa ha chiesto quello? Denaro? No, ha detto che si finanzia da solo, capirai, con quei quattro soldi della pensione. Vorrebbe un titolo nobiliare e la servitù al buon esito dell’impresa? E quante possibilità ci sono che la realizzi? Zero. Ma nel frattempo viene utile per dare il contentino al monarca, ammansirlo dicendo che qualcuno lo hanno pur inviato nello Jutland obbedendo a quella sua ridicola fissazione di rendere fertile la brughiera e popolarla.
Il capitano Kahlen è un bastardo, e tanto è significativo agli occhi della produzione questo dettaglio tecnico (bastardo non perché cattivo uomo, anzi, sotto l’ispida scorza…ma è nato dal possesso fisico di una servetta da parte del padrone) da costituire il titolo originale (“Bastarden”), cui è stato preferito nella traduzione questo più grandioso e più stinto. Ha le idee chiare su cosa piantare (patate), ed è un tipo abbastanza coriaceo da cimentarsi alla pari con codesto suolo brullo nella sfida a chi domestica chi: solo che la terra di frontiera non è quella selvaggia e di nessuno dell’Ovest americano ma è abitata da una classe di rentier infingardi, tra i quali spicca, per cretinaggine e perversa malvagità, lo psicopatico de Schinkle, che si è pure aggiunto il de per meglio spacciarsi da nobile (d’ora in poi per dispetto glielo cassiamo). Al fine di mantenere il controllo del territorio ha bisogno che la terra resti arsa, inadatta a dotarsi di una popolazione che metta in dubbio il suo non istituzionale dominio, oppure che colui che riesca a farla fruttificare sgobbi per arricchire essenzialmente lui. Proporre a Kahlen un contratto squilibrato è l’atto più generoso che abbia compiuto nell’esistenza: stuprare, mandare in giro sicari, ordire complotti e far torturare sino alla morte sono attività che gli vengono più naturali e dilettevoli.
Capirete che si scatena una lotta senza quartiere (il caos profetizzato da Schinkle), apparentemente assai squilibrata, visto che le forze-lavoro stabili su cui il capitano può contare sono una vigorosa donna resa vedova da Schinkle e una zingarella, della quale i primi possibili coloni reclameranno l’allontanamento perché essendo nera (più o meno) si sa che porta sventura (la menzione di questo razzismo nello Jutland del ‘700 è una delle informazioni storiche più interessanti). Sarebbe ingeneroso ridurre lo scontro a una frizione di opposte e smisurate ambizioni: la brama esibizionistica di possesso di Schinkle eccede il concetto di ambizione, mentre Kahlen la rende commista all’umiltà, dato che prevale nei suoi discorsi, e non opportunisticamente, il lealismo verso la corona e l’incremento della gloria di questa. Kahlen è continuamente messo di fronte a una serie di dilemmi morali: su questa cosa devo abbozzare in nome dell’obiettivo finale, oppure hanno da prevalere il principio e/o la singola persona? Nella scomoda posizione che si trova ad occupare, procede a strappi in queste scelte, ma nel segno di crescenti acquisizioni interiori che fanno della storia pure un romanzo di formazione, ad onta dell’età del protagonista. L’atipico taglio western, la laconicità e la tempra del capitano hanno indotto a paragonare l’interprete Mads Mikkelsen a Clint Eastwood, che però dopo il primo quarto d’ora ne avrebbe già uccisi una dozzina. Lo spessore di Kahlen si manifesta non tanto nella forza di combattente quanto nella resistenza di lavoratore e nella capacità di autocontrollo.
Di un bel film epico si sentiva la mancanza, e tuttavia la parte scadente dell’opera di Nikolaj Arcel sta proprio nel ciclo degli eventi, piuttosto prevedibili, scolastici quasi. Al di fuori di Kahlen e qualche figura di contorno, i ritratti psicologici sono tipologici e all’ingrosso: Schinkle viene attinto dal lato disneyano orrifico, l’eroina femminile Ann Barbara (Amanda Collin, ottima) è una Kill Bill poco plausibile per l’epoca. Di rappresentazioni dell’odioso dominio di classe ne abbiamo viste di più profonde e meno pulp. In compenso La terra promessa ha una mano meravigliosa nell’illustrarci con potenza visiva tre questioni esiziali nell’umano: l’homo faber, l’inclemenza della natura e il momento di formazione di una comunità, comprese le sue immediate spinte alla dissoluzione – qui quasi un trattato post-hobbesiano. Mica poco: e aggiungiamoci lo spettacolo dei campi lunghi e della fotografia e la monumentale prova di Mikkelsen.
La terra promessa
Nikolaj Arcel
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.
Quanto siamo ripetitivi
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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
-
Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.
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