Ruben Ostlund ben può consolarsi con la Palma d’Oro, la seconda, ma certo è che i quattro quinti dei critici cinematografici sono molto accigliati con lui e il suo Triangle of sadness, per lo più recensendolo come se si trattasse di un libro di Zizek o del primo Habermas e manifestando perciò delusione perché si aspettavano una critica marxista più seria e strutturata, e non così comoda e superficiale, sulla società capitalista. Eppure, se leggete le interviste al regista, non c’è traccia di prosopopea intellettuale. Cita tranquillamente i modelli di Lina Wertmuller e Luis Bunuel (che magari, specie il secondo, erano più profondi: ma lui è solo al terzo film) e chiarisce che il suo primo scopo è divertire lo spettatore, e poi che gli garba farlo dentro un contesto impegnato (ma pare a me che intenda davvero il contesto: non ci vedo l’ambizione di scuotere lo spettatore e credo che neppure lui abbia deciso bene se vuole consolarlo aizzandolo contro i ricchi o insinuargli il dubbio che se potesse farebbe uguale, stante l’essenza corruttrice del denaro). Realizza così un film comico a tutto tondo, visivamente mossissimo, perturbante e di sensibilità prossima alla videoarte, con una sceneggiatura gagliarda e una visionarietà postmoderna. Su queste basi, prima di ogni cosa, andrebbe giudicato il film. Poi, si può discutere se sia sufficiente per vincere una Palma d’Oro, ma nemmeno si può buttare la croce addosso a lui per le scelte della giuria. Se poi, in tema di premi a film surreali che dovrebbero far ridere, penso all’assurdo Leone d’Oro 2014 assegnato a Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (quella terrificante pellicola al termine della quale lo spettatore si augurava che i piccioni avessero fatto nido sopra il tavolo della giuria), direi che comunque è andata bene.
Triangle of sadness si compone di una piccola ouverture e tre parti. L’inizio è la fulminante illustrazione di un casting per modelli. La prima parte, breve, è l’ossessivo-claustrofobica contesa di coppia fra un modello non tanto affermato e una influencer riguardo a chi dovrebbe pagare il conto al ristorante, posta con intelligenza in chiave sessista, dentro una frizione tra ragionamenti di convenienza, insicurezza personale, manipolazione, ed escluso espressamente ogni elemento che sia riconducibile a un qualunque sentimento amoroso. La seconda è una crociera di ricconi, nella quale i due si imbucano grazie ai benefit che raccatta l’influencer. Sulla nave viaggiano alcuni tipi paradigmatici del denaro facile e immeritato – il magnate russo che opera nel campo della merda (come lui stesso spiega), il programmatore di app, gli imprenditori di armi – e lavorano, fra gli altri, un capitano veterocomunista, che ha perso ogni voglia di passare del tempo con le persone e anche di seguire la rotta, e una capostaff fanaticamente motivatrice della sua equipe. Una violenta tempesta si abbatte sull’imbarcazione, provocando accessi di vomito (al di fuori del filone horror mai rappresentati tanto schiettamente: evitate i popcorn e l’aranciata), la diffusione via microfono di un dibattito sul marxismo fra due ciucchi (il capitano e il miliardario russo) e il finale naufragio. La terza è l’approdo su un’isola deserta (almeno così si presenta) di un manipolo di superstiti (fra cui un infiltrato, per effetto di una trovata buffa), sulla quale la nullità di competenze dei membri della high-society determina un ribaltamento delle gerarchie sociali e consegna le leve, il gusto e i profitti (non quelli scontati) del comando a un’inserviente asiatica che è l’unica in grado di organizzare il nutrimento e la sopravvivenza.
La seconda e la terza parte sono incorniciate dentro metafore sin troppo didascaliche, quali il naufragio del capitalismo e l’inettitudine sociale delle classi più abbienti. Non sono tanto quelle a far ridere, e neppure le gag più scontate che discendono dalla situazione: piuttosto, il film è pieno di microcontesti stralunati dove l’umorismo si nasconde nel dettaglio del paradosso. In effetti il richiamo a Bunuel è pertinente, la progenitura della commedia italiana è innegabile, e se ci teniamo più vicini nel tempo la dimensione grottesca di Lanthimos e il finale anticlassista di Parasite sono dei buoni riferimenti, senza la stessa violenza, senza la struttura drammaturgica e obiettivamente senza lo stesso mordente. Quel che proprio manca di equilibrio è la dimensione temporale complessiva (due ore e venti), e per un film di impianto comico è sempre un difetto antipatico.
Triangle of sadness
Ruben Ostlund
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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