Chi ha meno di quarant’anni, ed era dunque un ragazzo quando scoppiò lo scandalo di Tangentopoli, potrebbe avere desiderio di comprendere in cosa veramente consistette l’essenza della cosiddetta Prima Repubblica, e quale giudizio storico si possa azzardare dell’uomo che ne riassunse uno dei momenti di massima espansione e poi ne simboleggiò la rovinosa fine, Bettino Craxi. Ormai non è più cronaca, ma storia, e sarebbe utile farci i conti. Ahimè, questo ipotetico spettatore uscirà da Hammamet con in tasca il biglietto d’ingresso che serviva per accedere al cinema ma senza alcuna cognizione in più di quella che magari aveva leggiucchiato qua e là.
Gianni Amelio è regista umanamente sensibile con una particolare propensione all’osservazione empatica. Non è affatto riprovevole che abbia provato a esercitarla verso un uomo che alla fine della sua vita cumulò sopra di sé l’acredine dell’intera nazione per un fenomeno che certo aveva contribuito non poco a consolidare ma che riguardava la responsabilità di tutta una classe dirigente (che comunque fu decapitata più o meno in blocco) e che non era certo sconosciuto ai tanti che ne approfittarono. E però la sua pietas diventa un impedimento allo sviluppo del film: l’onestà intellettuale di Amelio lo tiene lontano dalla generosità nell’aggiustamento del personaggio ma il timore di infierire ne limita il lavoro di scavo storico e introspettivo. Lo facevano tutti, tutti sapevano, i giudici prima ti mettono in carcere e così devi confessare, i soldi andavano solo al partito…quando si esce dalla claustrofobia del dramma personale il Craxi che viene offerto non ha da far emergere nulla di nuovo di quanto è ampiamente noto della sua prospettiva. E così l’idea, teoricamente buona, di focalizzarsi sugli anni di Hammamet invece che sulla biografia più ampia (salvo il trionfale congresso del 1989 che apre il film), resta sterile.
Neanche si capisce bene perché, a fronte di un così preciso riferimento alla località abbia intitolato il film, il resto debba rimanere innominabile, a cominciare da Craxi stesso che verrà solo chiamato “Presidente” da chi lo circonda o papà dai figli, oppure criptato sulla soglia dell’identificazione, come gli altri personaggi- dal luogotenente Vincenzo (Giuseppe Cederna) che gli profetizza sciagure quando è il padrone d’Italia o il democristiano (Renato Carpentieri) che lo va a trovare in esilio e con lui discetta, parecchio superficialmente, sulle crepe del sistema che avevano edificato e sul futuro che potrebbe delinearsi. Di realistico c’è la villa dell’ambientazione, messa a disposizione dalla famiglia del leader socialista, senza che questo abbia loro fatto ottenere sconti, giacché le figure della moglie e del figlio sono tristi assai; e la figlia stessa, ribattezzata Anita con un’analogia un po’ patetica, viene seppellita nella sua indomita e rabbiosa dedizione per il padre, senza che affiori qualche tratto di personalità in eccedenza a ciò. Destino d’altronde comune a chiunque nel film, asserviti scenicamente tutti ai monologhi ossessivi e svuotanti del “Presidente”.
Da questa china non si discosta neppure il fantasmatico personaggio di Fausto, figlio di Vincenzo che si installa nella villa di Hammamet e del leader diventa, benchè silente- o magari per questo- l’ombra, il fustigatore, colui che assolve, il possibile boia, il cameramen e il depositario del Segreto che Nessuno Conosce, nemmeno Amelio e quindi nemmeno noi: un factotum frutto di totale libertà espressiva (del regista, dell’interprete Luca Filippi un po’ meno) che viaggia sbilenco dentro la trama. L’alternanza di realismo e visionarietà pende improvvisamente nell’ultima mezzora tutta per la seconda. A vederla benevolmente si potrebbe dire un allineamento estetico a Bellocchio o addirittura Fellini, a essere più severi ci si chiede che cosa avesse fumato Amelio quando ha concepito questa parte.
L’impianto rimane troppo debole per fare del film un apologo scespiriano sulla solitudine del potente caduto. Interessante semmai (ma anche quella non condotta a pieno sviluppo) è la centralità del corpo decadente e della sue piaghe, della tentazione di esibirlo, della vergogna di indossarlo.
Ma la vera nota di merito di Hammamet è l’inaudita perfezione di Pierfrancesco Favino nel ruolo di Craxi, una reincarnazione con pochi equivalenti nella storia del cinema italiano, costruita con la fatica di ciqnue ore di trucco giornaliero. Non è solo fisionomia: Favino ha studiato esemplarmente ogni gesto di Craxi, dalla piega del sorriso (che possedeva una insolita sospensione tra la dolcezza e il sarcasmo) al modo e al tempo di toccarsi la montatura in alto degli occhiali, e ovviamente l’intonazione e la ritmica dell’eloquio. E’ un esercizio artistico che lascia ammirato soprattutto l’ultracinquantenne che quei gesti e toni li ricorda in Craxi. Poi però, siccome se gli prende la nostalgia se li può rivedere tali e quali su You Tube (senza differenza proprio perché Favino è uguale), se ne torna a casa senza nessun arricchimento di esperienza, proprio come il ventenne.
Hammamet
Gianni Amelio
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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