Quante cose dobbiamo conoscere sulle vicende dei personaggi per uscire soddisfatti dalla visione di un film, di una serie o anche dalla lettura di un libro? A lungo l’essenza della narrativa si è risolta in vediamo come va a finire una storia. La preoccupazione dell’autore era quella di non lasciare inesplicati dettagli che bruciassero nell’incertezza lo spettatore, a costo di sbrodolare per eccesso. Se “The end” fosse apparso, in un film classico americano, sopra lo schermo prima della matematica certezza che l’ultimo malvagio fosse sotto terra e i due spasimanti si fossero liquefatti nel bacio eterno, la pratica della class action (contro il regista in questo caso) si sarebbe diffusa prima. Nel tempo ha preso piede un approccio più sospeso, dapprima per ragioni estetiche e poi per riservarsi la chanche commerciale di proporre un sequel se il film avesse spopolato al botteghino. Ma la curiosità dello spettatore- che la lunghezza della serie ha abituato a un’identificazione più carnale e quotidiana con i personaggi – cresce esponenzialmente. La sua sete di sapere non si appaga della fine anche perché- come i bimbi per le fiabe della buonanotte- non vuole che la storia finisca, ed è pronto ad accettare ogni espediente per rimetterla in piedi. Ma a quel che tizio certo punto era partito per l’America che cosa è capitato? Ed eccogli servito lo spin-off. Va bene la fine, ma la storia quando è cominciata? Ed ecco il prequel, oppure l’origin-story.
Non è per forza un male: ma in linea di principio neppure un bene perché la vena narrativa si estenua nell’infinita merlettatura degli stessi tessuti, e se questo avviene quando l’abito aveva già una sua foggia autosufficiente è facile che tornarci sopra provochi invece una sfilacciatura. Uscendo di metafora, con il moltiplicarsi delle ramificazioni di un nucleo narrativo è più probabile che ci si allontani dalla sua coerenza originaria.
“Joker”, il film del regista Todd Phillips, vincitore del Festival di Venezia, galleggia in questo brodo, e ci intinge diversi elementi mainstream, a partire ovviamente dai riflettori sull’eroe cattivo e lo scenario noir. Non si appoggia tuttavia sul prototipo luciferino, mentalmente irraggiungibile e profondamente misterioso che ne caratterizzava la biografia cartoon e le precedenti incursioni cinematografiche. Il regista decide di chiarire cosa ci sia dietro una simile follia e opta per la soluzione sociale: persino Joker è un prodotto della società. Siccome però resterebbe pur sempre un gap tra l’origine sociale e l’esplosione delirante del disagio personale, Phillips ritiene necessario calcare la mano e allungare a sproposito la lista delle iatture e degli abusi subiti da Arthur Fleck sin dall’infanzia, fragile sì, ma che pure vive presentandosi a sé e al mondo come “uno che vuole portare la gioia e la felicità”. Ma il mondo non lo vede e anzi lo calpesta, e Phillips non è soddisfatto fino a che non è sicuro che quando vedremo il suo eroe (non anti-eroe, a questo punto) cambiare registro sbotteremo: “E dagli torto!”.
Il materiale è un po’ trito in diversi punti anche riguardo agli effetti dei media (che hanno un ruolo decisivo nel salto di qualità del disagio mentale di Joker) come trite sono le critiche al film che fanno leva sul rischio di emulazione violenta. Più interessante sarebbe capire quale sia il pensiero (se c’è) dietro la rappresentazione del lumpenproletariat di Gotham City degli anni Ottanta che elegge involontario simbolo il ribelle Joker, scende nelle strade con la maschera da pagliaccio e sfascia tutto. E’ una critica distopica della diseguaglianza brutale del capitalismo? Un corteggiamento dell’anarchismo? Una denuncia della folla pre-totalitaria che è pronta a issare sul pennone della propria frustrazione persino un clown mentalmente labile?
Tutto un altro discorso merita l’interpretazione di Joaquin Phoenix, che catalizza programmaticamente tutte le scene accendendo una stand-up comedy irresistibile nella sua deviazione e che risucchia certi eccessi o leziosità della costruzione visiva nel magnetico eccesso della sua interpretazione (certo anche grazie alla libera e non sempre psicologicamente coerente costruzione del personaggio). Anche Todd Phillips, a ruota di Phoenix fa la sua parte, specie negli zoom, nella carrellate e soprattutto nel montaggio di certe scene dinamiche. Due scene sulla metropolitana, quella del primo plurimo omicidio e un’altra di inseguimento, dal punto di vista del puro godimento cinematografico sono esaltanti. Robert De Niro, nella parte di un cinico anchorman si presta al ruolo di spalla con il solito fenomenale mimetismo (la sceneggiatura scritta per lui, però, è proprio d’accatto).
Le citazioni abbondano, e fra tutte Re per una notte e Taxi driver: Scorsese, anzi, è un convitato di pietra e un modello che Phillips è lontano dall’eguagliare. Suggestiva è la trasposizione estetica di una graphic-novel dark. E’ stato detto che il cinecomic non sarà più come prima, ma semplicemente Joker rinuncia al cinecomic a ai suoi effetti speciali, c’entra con il rinnovamento del cartocomic come Roger Rabbit c’entrava con il rinnovamento del giallo, e il cinecomic canonico riprenderà il suo cammino senza sobbalzi, per ora.
Tra i miei amici di adolescenza ce n’era uno noto come bastian contrario. Una volta gli dissi: “Non bisogna perdersi Guerre Stellari. La metà di quelli che lo hanno visto dicono che è eccezionale, l’altra metà che è una schifezza”. E lui rispose. “Io l’ho visto, l’ho trovato così così” (ineguagliabile, ammettetelo). Si può ripetere uguale per Joker. Non è che passerete due ore noiose, anzi. Tra sei mesi però, ne sono convinto, avrete dimenticato tutto. Forse persino l’onnipresente risata, se non avrete a portata Phoenix ad allungarvi il biglietto da visita che la spiega come sintomo di una malattia nervosa.
Joker
Todd Phillips
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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