Recensione del film “La mafia non è più quella di una volta”

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Poco più di trent’anni fa Leonardo Sciascia pubblicò un articolo sui professionisti dell’antimafia, e su quel metodo di far carriera che sarebbe consistito, ad esempio, per un magistrato nel divenire specialista processi sulla mafia; un’antimafia da vetrina, che appannava i confini stessi tra mafia e antimafia. L’articolo fu ferocemente criticato, anche da chi aveva amato Sciascia e considerava quest’uscita una macchia nella sua biografia intellettuale.

Da allora deve esserne passata di acqua sotto i ponti se un film come quello di Franco Maresco, La mafia non è più quella di una volta, ripropone sia pure in una chiave nuova- antropologicamente più estesa- la teoria dell’annullamento di confini tra la società civile e la cultura mafiosa e riceve, oltre al premio della critica nella sua prima partecipazione al Festival di Venezia, un plauso pressoché unanime e acritico. Si è a lungo ritenuto (probabilmente a ragione) che il primo bersaglio di Sciascia fosse Paolo Borsellino. Curiosamente qui la rottura del confine tra l’ideologia legalitaria e quella mafiosa viene rintracciato sottolineando la falsità delle celebrazioni palermitane all’anniversario della morte di Borsellino (e Falcone). Rispetto a Sciascia siamo dunque nel solco della continuità o della discontinuità? Nel dubbio, la sua linea di continuità Maresco la ricerca con un velenoso e deboluccio- anche sotto il profilo cinematografico- attacco a Mattarella, reo di non avere commentato la sentenza che ha riconosciuto la trattativa Stato-mafia.

 

Ma andiamo con ordine. Nello stile di Maresco (e del suo antico sodalizio con Ciprì), siamo nel campo del documentario atipico, alternato da materiale d’archivio, alterato dalla voce fuori campo di Maresco e da elementi finzionistici che vengono presi in carico dagli stessi documentati (chiarisco meglio fra poco). Si comincia con la camera che tallona un bel po’ di soggetti con domandando se si sentono commossi nel 25° anniversario della morte dei due magistrati, e quelli non rispondono, sfanculano, maledicono i due defunti o li insultano. Allo spettatore viene da pensare che il problema degli immigrati è bell’e risolto: facciamo scendere dai barconi chiunque e carichiamoci sopra tutti i palermitani per deportarli in Libia. Ovviamente: ogni documentario seleziona gli intervistati secondo il suo scopo, e questo è un film e non il telegiornale. Ma cosa sarebbe accaduto se lo avesse, qualche anno fa (prima che la Lega cercasse i voti siciliani) messo insieme un regista di simpatie leghiste a scopo dimostrativo dell’immoralità meridionale? Maresco è di sinistra ed è pure palermitano, e poi faceva “cinico tv”: ma questo lo emenda dall’accusa di diffondere stereotipi razzisti e classisti? O lo rende ancora più responsabile, e immerso in quel brodo di snobismo che sempre al suo punto di cottura razzista/classista ad un certo punto perviene?

 

In realtà, questo immediato scompenso sembrerebbe propedeutico alla critica dell’antifascismo di vetrina, dato che la macchina si sposta sulle celebrazioni di Falcone e Borsellino da parte della società civile e ne mostra lo svuotamento fieristico, la riduzione a sagra, la ritualità stanca: e la fa scolpire dal giudizio e dallo sguardo di una testimone fantastica, l’ottantatreenne Letizia Battaglia, grande fotografa delle stragi di mafia e fiera militante. Viene da pensare che, per la salute della società, è quasi peggio questo di quegli altri che farebbero rimorire Falcone, e pare una traccia interessante. Ma Maresco preferisce tornare a quell’altro mondo, pescandone nel fondo, tornando ed in particolare al personaggio che aveva reso noto nel film precedente Belluscone: Ciccio Mira, un organizzatore di feste di piazza “legali e illegali” attivo anche in una tv privata, crassamente ignorante e mentore di artisti scalcinati e finito qualche mese in carcere per connivenza mafiosa, che sta addirittura allestendo anche lui la serata all’aperto per Falcone e Borsellino, addirittura con i cantanti neomelodici e nel quartiere Zen, il più critico di Palermo. L’argomento è stuzzicante e surreale. Ma ci saremmo poi andati a seguire per un’oretta le performance di pseudo-artisti, molti dei quali (uno più palesemente) afflitti da disturbi mentali, e ci saremmo effettivamente scandalizzati che non gridassero vigorosamente “Abbasso la mafia”, nonostante l’incalzare di Maresco?

 

Il regista è arrivato al famoso stadio di “venerabile maestro” (al quale per la verità è l’ultimo degli interessati: a Venezia manco c’era), di fronte al quale lo spettatore deve apprezzare e ridere sino a prova contraria. E così è d’obbligo tacere che quel modello di “cinismo” verso i disgraziati si è affinato esteticamente ma ha perso mordente o è diventato eticamente disturbante e che alla lunga il film è noioso, se non siete i tipi che si sganascerebbero dalle risate sbirciando in un reparto psichiatrico o gli adolescenti che si affannano sulla smartphone alla ricerca del video più demenziale. E anche far finta di non capire che Ciccio Mira, da quando apprende che Maresco vuol fare il film su quell’evento, lo indirizza sui binari che il regista desidera, fa accadere tutti gli eventi che vengono comodi alla portata delle telecamere e si esibisce in una meravigliosa interpretazione attoriale di se stesso, ricca per giunta di aforismi pronti per l’uso (tra i quali quello che dà il titolo al film). In sostanza a cancellare il confine tra documentario e finzione non è Maresco ma Ciccio Mira. E Maresco, che ne sia consapevole o meno, ci fa la figura del professionista cinematografico dell’antimafia. Nel senso di Sciascia.

 

La mafia non è più quella di una volta

Franco Maresco

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2020-09-11T15:17:29+01:0020 Settembre 2019|Il Nuovo Giudizio Universale|

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