A ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità. Questo noto slogan marxista, pur se coniato come cardine della produzione e del consumo, ben può calzare per qualsiasi esigenza, persino quella di fare i conti con il fantasma di un fratello gemello morto suicida oltre cinquant’anni prima, a ventinove compiuti. Ma il bisogno e la capacità in questione, per il regista Marco Bellocchio, non erano tanto di farli, questi conti, ma di farli a mezzo di un film, che è stato osannato dalla critica e insignito di un premio speciale al Festival di Cannes.
La partenza sembra promettente: le foto dell’album di famiglia e le voci dei fratelli superstiti si alternano con filmati d’epoca. La dichiarazione di guerra dal balcone di Palazzo Venezia, il referendum e intanto i due fratelli che compiono il percorso scolastico insieme, fino a che quello di Camillo non comincia a incepparsi. Si interrompe così, appena dopo la soglia d’ingresso, pure il legame tra Camillo e la sua epoca storica. Perché Camillo è un ragazzo normale, su cui non c’è tanto da raccontare, nonostante la voce dei fratelli superstiti, e di quel che accadeva fuori gliene fregava poco, contrariamente a quei cervelloni che aveva intorno. Era detto l’angelo. Perché? Boh, così. Forse perché aveva un bel sorriso. Però era tanto malinconico. Cioè, non che gli dispiacesse scherzare. Anzi, voltava tutto in burla. Era il preferito della mamma. Mica poi tanto, però, perché c’erano degli altri figli disagiati, uno aveva problemi psichici, dava di matto continuamente (e la mamma decise di far dormire Camillo insieme a lui) e una era sordomuta: a un certo punto, chiamato anch’egli al banco dei testimoni, il noto analista Luigi Cancrini, emette la sua (facile) diagnosi, Camillo stava a metà del guado, non era abbastanza scassato e non era abbastanza bravo.
Perché infine il dramma a-storico di Camillo si sostanzia in quel cruccio universale – che raggiunge però il suo apice storico in una famiglia borghese – di non essere all’altezza dei fratelli, in questo caso specialmente del regista affermato che Marco va diventando e del lucido e coltissimo Piergiorgio, fondatore degli storici Quaderni piacentini. E loro avevano colto il malessere? Macché. D’altronde si trattava di intellettuali del Sessantotto, tanto da rimpiangere per il senso del collettivo quanto noti incompetenti per quanto concerne il privato. E continuano a capirci poco anche in questo film, pur ammettendo certe trascuratezze, anche mnemoniche. Non ha lasciato neppure un biglietto, dice Marco. Certo che sì, risponde Piergiorgio. Ma va’! E che c’era scritto? Mi pare che non fosse contento in amore, però non mi ricordo bene, e del resto a un certo punto l’ho buttato.
Poi Alberto, il fratello sindacalista dice a Marco (il film è scomposto in tanti monologhi-similinterviste separati che richiamano scopertamente l’estetica della seduta psicoanalitica): lui ti ammirava, ti aveva scritto chiedendoti se non potesse anche lui intraprendere la carriera del cinema, e tu gli hai risposto? Non mi ricordo, dice Bellocchio, che dopo rammenta che sì, non proprio risposto, però lo aveva un po’ arronzato.
Se (bisogno e necessità) occorre mettersi tutti davanti a una macchina da presa per ricordare la situazione è critica. Ma il vero è che, per quanto no fiction, una storia narrata esige la sua porzione di finzione nel ripercorrerla, e in un film- rispetto alla letteratura- accade che qualche personaggio (il regista- protagonista in primis), dietro l’apparenza del documentario, debba recitare in diversi passaggi: me lo possono giurare su Camillo, ma che del biglietto d’addio Marco abbia appreso mentre inquadrava Piergiorgio non ci crederò mai.
Un’operazione di questo genere può fare simpatia oppure no; a me personalmente non ha fatto simpatia perché – l’esempio che ho fatto mi pare il più lampante – manca di quel requisito che dovrebbe cucire intento artistico e spinta intimistica e confessoria: la trasparenza. Fanno eccezione i momenti (gli unici straordinari, genuini, e commoventi) in cui detta la scena Letizia, la sorella sordomuta; non fa eccezione la ricorrente presenza, come interlocutrice, della sorella della ex fidanzata di Camillo, che troppo tutto ricorda e tutto puntualizza per non essere quella che recita la parte di quella che tutto ricorda e tutto puntualizza. E difettando la trasparenza viene meno anche l’empatia; soprattutto paiono recidivi a distanza di cinquant’anni Marco e Piergiorgio, nell’essere poco empatici verso Camillo. D’altronde, cosa potrebbe desiderare di più, quell’anima del purgatorio, se non un film del fratello regista, che col passare dei minuti spoglia Camillo del ruolo centrale per farne un’occasione di ripercorrere la propria carriera e di strappare qua e là lodi sperticate per la sua grandezza? (davanti al vecchio amico prete che gli dice: eh, i tuoi film sono tutti una lunga confessione, si illumina, gigioneggia e bada bene che la frase rimanga scolpita). Senti quest’altro fratello ex sindacalista che pontifica prolisso, incapace di restituire un solo ricordo serio di Camillo e ansioso solo di sollecitare il senso di colpa di Marco e ti domandi: ma cosa gli avrà impedito di stopparlo osservando ineccepibilmente che aveva rotto i coglioni, o almeno di tagliarlo nel montaggio? Sarà da pagare a lui il dazio nella resa dei conti familiare? Per quanto concerne Camillo, Marco ammette: sì, forse dovevo accorgermene, ma pure tutti gli altri. Marx può aspettare (frase di Camillo di fronte alla proposta di Marco di impegnarsi nel collettivo per aborrire la borghesia). Alla fin fine, però pure Camillo.
Marx può aspettare
Marco Bellocchio
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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