Qualche anno fa l’Università di Cambridge pubblicò un elenco di lavori che a breve saranno soppiantanti dall’automazione. Non ricordo se vi rientrasse il selezionatore di pulcini, cioè quello che in una fabbrica è addetto e determinarne il sesso per individuare e selezionare quelli che servono alla produzione (le femmina, altro che maschi bianchi liberali). Visto in Minari non pare un mestiere entusiasmante, e il primo a rendersene conto è Jakob Yi, che insieme alla moglie Monica esercita da salariato questa specializzazione. I due sono immigrati di seconda generazione, coreani di origine, e dopo dieci anni trascorsi in una città californiana, l’uomo decide di condurre la famiglia (composta anche dalla riservata e giudiziosa ragazzina Anne e dall’esuberante piccolo David) in una sperduta campagna dell’Arkansas, per cambiare vita e diventare fattore. Non vuole esattamente recidere il legame con le sue radici, tant’è vero che l’obiettivo è coltivare verdura coreana per grossisti coreani. In questa lontana versione del sogno americano e della frontiera, non c’è più la caccia all’oro ma la caccia all’acqua. Per ottenere una terra a buon mercato Jakob deve accontentarsi di un appezzamento che ha problemi di irrigazione, e del sovrastante baraccone prefabbricato con la fisionomia di un camion senza ruote – che la moglie riesce ad acconciare, in verità con una certa grazia. Ma non è contenta, Monica; oltre tutto David è gravemente cardiopatico e la inquieta che quel paesino sia lontano dagli ospedali: però infine baratta il suo imbronciato assenso con l’accoglienza in casa della madre Soon-Ja, che vive vedova in Corea. La nonna, secondo David non è una vera nonna, perché non sa cucinare biscotti e dice parolacce, oltre al fatto che “puzza di Corea” e gli usurpa l’esclusività della camera, e anche se non per sua colpa accentua lo smottamento della famiglia. In compenso, ha un’idea di dove sia giusto piantare il minari, un’erba giapponese paragonabile al crescione che ha la prerogativa di svilupparsi più rigogliosa nella sua seconda stagione: insomma è una metafora dell’aspirazione a integrarsi degli immigrati.
Il film scorre sopra questa domesticità carica di conflitti mai esasperati o melò, e dei quali la macchina da presa ha la capacità di cogliere sempre un dettaglio sottilmente affettivo, aiutata dalla grande bravura degli attori (Yoon Jeo-Jong, la nonna, ha vinto l’Oscar per la migliore attrice non protagonista, che pare più un riconoscimento al collettivo, bambini inclusi). Minari è stato accusato di non raggiungere mai il climax, o all’inverso di snaturarsi forzando la mano con un paio di eventi di rottura nella parte finale. In realtà, rimane fedele al suo minimalismo (più narrativo che visuale) e accetta di inglobare due necessarie disgrazie catartiche che rientrano peraltro nell’ordine delle probabilità. Anche la questione dell’integrazione viene affrontata a bassa voce, con garbo e nel complesso un certo ottimismo. Qualche lentezza onestamente affiora, ma il personaggio del bambino, forse più di ogni altro, è determinante per tenere vivi l’interesse emotivo e una cifra lieve, oltre al fatto che la sceneggiatura ha una sua sobria brillantezza.
Più che al truculento o fibrillante gusto registico coreano, Lee Isaac Chung si accoda a quello giapponese e la lente di ingrandimento sulla famiglia piccolo-borghese è debitrice dello stile di Kore-Eda, e come lui cuce l’abito della solidarietà familiare senza celare che la sua stoffa è l’intimo egoismo degli individui che la compongono.
Minari
Lee Isaac Chung
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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