Nei primi dieci minuti un Roberto Benigni di corporeità marionettistica ci propone Geppetto ridotto allo stadio di semi-accattone che scrocca una zuppa all’osteria e sbircia incantato da un finestrino la meraviglia del teatro dei burattini arrivato in paese. È un attacco straordinario, risucchiante: ma nel libro non ce n’è traccia. Quell’avvio costituisce una deroga al principio che Garrone si è autoimposto come parametro del suo adattamento cinematografico di “Pinocchio”: una rigorosa fedeltà al testo. E però poche delle scene successive eguagliano per pathos quell’inizio, e questo qualcosa vorrà dire.
Premettiamo che a essere fedele al suo Pinocchio faticò anche Carlo Collodi, che l’aveva bell’e chiuso con la morte del protagonista impiccato a un albero dal Gatto e la Volpe per trafugargli quelli zecchini d’oro che gli aveva donato Mangiafuoco. Era il 1881, e tutto il pur comprensibile cianciare sul disagio emotivo che, in seguito, Bambi orfano avrebbe procurato nello sviluppo infantile si eclissa a fronte di tale scioccante epilogo di una storia pubblicata sul “Giornale dei bambini”. Ma il pubblico reclamò il seguito, e su insistenza dell’editore, Collodi glielo offrì, resuscitando il monello per incantesimo della Fata Turchina, dotandolo di un’autocoscienza più incline a fare degli errori una tappa formativa e indirizzando la storia a un finale più lieto. La scrittura, scabra e nervosa, rimase un miracolo di modernità (al netto delle puntigliose parti edificanti). La questione dell’adattamento allo schermo, dunque, per Pinocchio non ha ragione di porsi in termini di sensibilità storica del linguaggio, e nemmeno della psicologia dei personaggi. Collodi, sotto questo profilo, è vivo e combatte insieme a noi. Il nodo è puramente nella trasposizione formale, così come si pone per qualunque testo: e quella rapidità dei cambi di scena che nel libro si ricompone in avvincente unità, portata di peso nel film, ne restituisce una compressione smorzante e un impatto emotivo esageratamente legnoso (al quale aggiunge il suo la scarsa empatia del giovanissimo interprete Federico Ielapi).
Così rimane nulla più che corretta la sceneggiatura, per la quale Matteo Garrone ha sorprendentemente cooptato Massimo Ceccherini, un po’ come se Fossati riscrivesse in canzoni Pinocchio insieme a Drupi (nel film, poi. Ceccherini è anche una convincente volpe). Tutt’altro discorso per la parte visiva, dove Garrone rinuncia agli effetti speciali della tecnologia preferendo lavorare di fino sul trucco e i costumi, attinge egregiamente ai paesaggi macchiaioli, perturba gli interni con il chiaroscuro del fotografo Nikolaj Bruel (già apprezzato in Dogman) e ricostruisce mirabilmente il quadro campagnolo della civiltà ottocentesca, aiutandosi anche con il felice innesto di un crogiolo linguistico, spesso attingente pure al meridione, in luogo della monovocalità toscana. Gli attori noti sono tanti, e molto bravi. Unica stonatura percettiva è la colonna sonora, tanto piatta quanto inutilmente invadente.
Dove un riadattamento emerge davvero è nell’accentuazione del realismo che già era molto crudo in Collodi. Garrone è l’autore adatto per prolungare nel dark e nell’orrifico le scene più cupe del testo; e altro suo merito è raffigurare la solitudine o la miseria fuori dall’infingimento fiabesco, come certo allo scrittore sarebbe garbato. C’è infine un aspetto che affiora naturalmente (ma più naturalmente che in altre versioni), essendo uno dei temi narrativi più popolari di questi anni, ed è la fibrillazione del rapporto padre/figlio e la sua chiusura in un universo emancipato dal bisogno del femminile. Più evidente che nella storia non è possibile raccontarlo, eppure serviva la lente moderna per metterne a fuoco la nettezza.
Pinocchio
Matteo Garrone
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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