E’ un’idea talmente bella che non so perché non la applichino tutti i registi, per tutti i film. La sceneggiatura non viene condivisa all’inizio con gli attori ma svelata giorno per giorno, rendendo più spontanea l’immedesimazione con la storia, più autentiche le espressioni di stupore e di amarezza. In questo caso prima che un’idea artistica (particolarmente consona a una pellicola in cui recitavano per lo più attori non professionisti) era una necessità interna di Alfonso Cuaron,
che tornava nella sua Città del Messico, nel suo quartiere borghese di nascita- che si chiama Roma- nella sua dolorosa infanzia, nel suo doloroso abbandono paterno. Tornava per ricostruire i suoi primi anni ’70, e aveva bisogno di farli riaffiorare in una purezza di sguardi, in uno scandaglio di verità, sino al punto da andare a razzolare i mobili dalle vecchie conoscenze del quartiere per metterli in scena con i fantasmi che probabilmente mai lo hanno abbandonato in tutti questi anni. E però più che di un cronista, per celebrare questa pacificazione con la sua memoria, a Cuaron serviva un testimone, qualcuno che vede le cose dall’esterno e che è in grado anche di fare da ponte con quell’esterno, che non riduca tutto a un ritratto di famiglia in un interno, che non tenga la storia nella stessa condizione del cane di casa, che mena la sua giornata bigia essenzialmente in un androne che funge da garage e però come avverte qualche suono familiare da fuori comincia a saltare in una verticalità ultracanina, rimbalza più che saltare e alla lunga sembra un gioco a molla schiavo di un meccanismo automatico.
La testimone scelta da Cuaron è Cleo, la tata che stravede per i piccoli ed è pronta a rischiare la vita per loro, la domestica, e anche questo è un ritorno a casa (alla fine del film compare la dedica del regista alla sua tata). Cleo è l’osservatrice diretta dell’intimità familiare ma anche il tramite con la sua classe sociale, e questo consente a Cuaron di descrivere quell’altro pezzo di comunità e semplifica la volontà di affacciarsi sui fatti storici dell’epoca (siamo nel 1971), in particolare la strage del Corpus Christi nella quale 120 manifestanti antigovernativi vennero uccisi da squadre paramilitari. Anche quell’episodio, tuttavia, come ogni segmento narrativo del film viene approcciato lateralmente. A qualcuno potrà sembrare che quest’approccio rallenti l’empatia. Al contrario, pur rispondendo in primo luogo a un programma estetico, esso restituisce al tempo degli eventi la sua lenta profondità.
A guidare il film- aperto e chiuso dall’acqua, come ama Cuaron- sono due vicende che agiscono in parallelo: Sofia si trova a far fronte alla fuga del marito verso altri lidi sentimentali e, pur sconvolta dalla sofferenza, cerca di occultarla e poi addolcirla ai quattro bambini che Antonio nemmeno chiama al telefono; intanto Cleo rimane incinta di Fermin, un deficiente invasato di arti marziali, e pure codardo che quando apprende dell’imprevisto la molla sulla sedia del cinema scusandosi che deve andare in bagno e invece si dà alla macchia (non del tutto, purtroppo, come constaterà lo spettatore).
Questa è la trama, e Cuaron ci mostrerà che basta e avanza per combinare un originale matrimonio tra i neorealismo europeo e la letteratura minimalistica americana. Il film, in lunghe sequenze fisse, diventa una natura morta cinematografica, concentrata a tratti quasi morbosamente sugli oggetti, distillando intorno loro schegge di millimetrico mutamento e poi passando la mano a scene collettive stipate (da murales di Diego Rivera) e magnetiche oppure a piani sequenza che intensificano scene memorabili (c’è un’epica del travaglio della partoriente che non mi risulta avere eguali nella storia del cinema) o disegnano traiettorie geometriche mentre tallonano gli attraversamenti della casa padronale da parte di Cleo. Inevitabile la scelta del bianco e nero, che però viene rivitalizzato dal digitale sino alla luminosità e straordinaria la conduzione fotografica, che il regista questa volta ha realizzato in prima persona. Era un lavoro troppo personale per non tenersi pure il montaggio, che il suo acme perfezionistico lo raggiunge in una scena che all’inizio mostra la macchina del marito fedifrago all’ingresso del garage sudare sette camicie per starci con la misura. Dopo poco si capisce che è una bella metafora della posizione di Antonio dentro la famiglia, e qualcosa di simile capiterà tante di quelle volte da dover riconoscere, infine, che non ci sia stato un fotogramma, non uno solo, che significhi solo se stesso e che non abbia probabilmente macerato a lungo nell’animo del regista.
Roma
Alfonso Cuarón
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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