Riprendendo un suo stesso spettacolo teatrale, Emma Dante mette in scena le “tre età della vita” delle sorelle Macaluso e il legame inestirpabile con la loro casa, a partire dall’infanzia. Le cinque, che per qualche ragione non esplicitata vivono senza genitori (e mai vi faranno cenno, nemmeno in là negli anni) sbarcano il lunario con il commercio di piccioni di allevamento; oltre a ciò la loro giornata è scandita da avvicinamenti, frizioni, provocazioni, attaccamento. In una gita al mare una terribile disgrazia le segna per sempre, tant’è che il passaggio all’età adulta illustra il loro imprigionamento nel passato piuttosto che una qualche evoluzione. Solo l’età della vecchiaia, brevemente accennata, lascia intuire una parziale pacificazione interna di chi è sopravvissuto. Questo è quanto.
Chiaramente una trama tanto esile e programmaticamente claustrofobica necessita di un grande equilibrio dei mezzi espressivi, e qui proprio non ci siamo. Già dopo i primi promettenti dieci minuti di schermaglie casalinghe e signoria dei piccioni sullo schermo, intrisi di poesia, scatta un segnale d’allarme: il cammino delle ragazze verso la loro scampagnata è accompagnato da Inverno di Franco Battiato, che già è molto bella, e (specie giudicata a posteriori) calza a pennello sul film. Ma farla sentire tutta? E subito dopo mettere un altro gettone nel juke-box, e dagli con un altro pezzo d’annata che più banalmente scandisce il gioioso balletto dei piccoli balneari sulla spiaggia? Quest’uso stucchevole delle musiche sarebbe tuttavia peccato veniale- pur segnato pesantemente da recidiva: ascolteremo anche più volte un Satie che proprio non c’entra nulla. E’ che Emma Dante sperimenta un piacere dell’insistenza e dell’ossessione che, per quanto affine allo spirito delle protagoniste, manda “Le sorelle Macaluso” in corto circuito estetico. E’ di certo voluto che la carnalità viscerale, propria del teatro di Emma Dante, si spinga nel cinema sino all’indagine sulla repulsività del corpo e della manifestazione degli istinti ma c’è un limite di tempo oltre il quale una simile pratica diventa altro, e un limite ulteriore oltre il quale diventa brutta. Dopo una scena che era stata peraltro tra le migliori del film, combinando alla perfezione realismo e simbolismo (una delle sorelle indossa l’abito da ballerina che da piccola aveva sognato fosse il suo abito di scena, lo fa in una stanza dopo essere stata malissimo e ascolta le voci delle sorelle che litigano furiosamente, poi si presenta con il suo abitino e annuncia la malattia), si assiste a una compensatoria e mentalmente dissociata abbuffata compensatoria di pasticceria siciliana, che all’inizio ti prende alla gola (anche se sapevi quindici secondi prima che sarebbe accaduto, ci sono parecchie sequenze telefonate), poi pensi: vabbè, starebbe meglio in un video di arte contemporanea e anzi in quel campo l’ho pure già visto, e quando il tempo si dilata ancora dici, no a questo punto è proprio sbagliato, e anzi è kitsch. In effetti il problema principale de “Le sorelle Macaluso” è questo, di affondare nel kitsch, specialmente quando fa apparire più di una volta la morta (con le sembianza che aveva quando morì) a fianco dei vivi (come sono adesso), svelando oltre tutto l’indecisione stilistica della Dante tra la suggestione lirica che lascia sospeso e l’eccesso didascalico della visione- risolto infine e malamente a favore del secondo, persino con un’inusuale inserimento durante i titoli di coda dell’evento fosco sin lì scansato e del quale avevamo già appreso quanto basta. Sembra che, un po’ come la sorella Macaluso che si era avventata compulsivamente sulle cassatine, la Dante- che fa della povertà scenica un codice rigoroso del suo teatro- abbia colto l’occasione cinematografica di una casa di famiglia per stiparla di oggetti-feticci, sui quali la macchina sceglie di indugiare all’infinito, come se qualcuno se la fosse dimenticata accesa.
E’ un film sbagliato, non certo sciatto, e per questo ci sono alcune cosa buone: il montaggio perfetto di Benni Atria (che in parte tura le falle di un uso dell’immagine troppo saturante e che ruota intorno ai primissimi piani e alla staticità), la prova di ciascuna attrice soprattutto fuori dalle sequenze di interazione collettiva, alcune scene potenti, pure tra quelle cicliche (il bagno nella vasca di casa, che progressivamente sembra sempre più un accomodamento nella fossa), le buone intenzioni e la stessa idea di partenza sul ruolo ambiguo di una casa familiare nell’esistenza e sul filtro che gioca nella costruzione della memoria. Alla fine, però, mentre scorrono tirati sino all’inverosimile i cinque minuti conclusivi ti viene da pensare che non aveva poi torto il marito di una delle sorelle che insisteva per venderla, la casa, o perlomeno mandare via tutti quei piccioni.
Le sorelle Macaluso
Emma Dante
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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