La trama di The Undoing, diciamocelo con franchezza, non è che sia di un’originalità da rotolarsi per terra. Famiglia della high society newyorkese immersa nella rete sociale impregnata di falsità e ipocrisia, nucleo superficiale della sua felicità, crisi che ne scoperchia il sostrato menzognero, crisi in questione legata a un omicidio passionale (dell’amante) che vede incriminato il capofamiglia, moglie altalenante tra solidarietà-nostalgia- gelosia-basta con la finzione-dolorosa introspezione-impulsività, e chissà se è stato lui, ma non hai pensato a tuo figlio, accidenti qui abbiamo da sospettare di tutti, vediamo come finisce questo processo con tanto di severa inquisitrice e tostissima avvocatessa difensiva. E intanto giù con i flash e i microfoni dei giornalisti appostati fuori dal domicilio domestico e dall’aula del tribunale.
Il difetto di fantasia, però, ben potrebbe giustificarsi con la duplice anima del film: quello di ritratto sociale e quello di thriller, la cui essenza è tenere con il fiato sospeso ad attendere il finale e insinuare il sospetto sopra più di un personaggio.
In questo secondo obiettivo, The Undoing tiene abbastanza bene. Chiamiamo per nome i protagonisti: Grace (Nicole Kidman) è una psicoanalista specializzatasi ad Harvard. Nessuno insinua mai che il ricchissimo genitore le abbia comprato la laurea, ma siccome è una che avrebbe più possibilità di capire cosa passa nella testa di un altro tirando con il lancio di una moneta piuttosto che ragionando di suo, a noi spettatori il dubbio viene. Non deviamo però dall’intrigo: suo marito Jonathan Fraser (Hugh Grant) è un affermato oncologo infantile un po’ sprezzante verso gli impegni mondani, in particolare quelli della prestigiosa scuola cui è iscritto il figlio dodicenne Henry con il quale ha un rapporto idilliaco. Grace, che frequenta le riunioni del comitato scolastico dei genitori, vi conosce Elena Alvez (l’italiana Matilde De Angelis), che si fa notare perché a confronto di quel mondo è una pezzente, allatta al prosperoso seno con gusto della teatralità e si mostra sessualmente provocante anche con Grace. Ed ecco che la donna viene trovata uccisa nel suo atelier di pittrice ed emerge che sul luogo del delitto si era trovato il marito di Grace, non per discutere d’arte né per circostanza occasionale (aveva anche generato con lei una bambina). Come non credere alla professione d’innocenza di un uomo che appariva così generoso e dabbene? Il fatto è che Jonathan si rivela un mentitore compulsivo. Presto comincia a sembrare un personaggio sullo stile di Jean-Claude Romand, il personaggio (vero) narrato in L’avversario di Emmanuele Carrere. Grace entra in contatto con la propensione manipolatrice del marito, che però continua ad attrarla, e che da sola potrebbe non dimostrare che sia un assassino. Così sceglie di affiancarlo nella battaglia processuale, pure per assecondare i sentimenti di suo figlio, ma contro la volontà del suo potente padre (l’intramontabile Donald Sutherland), che tuttavia non si sottrae alla sponsorizzazione della cauzione per la libertà provvisoria e dell’ingaggio del legale più quotato sulla piazza (Noma Dumezweni). La sequenza delle rivelazioni è abbastanza incalzante da conservare alta la soglia della tensione e dell’incertezza. La quinta puntata, poi, è probabilmente la migliore della serie perché si identifica con il canovaccio dell’aula di tribunale che ha salda tradizione nel cinema americano.
Quello che proprio non funziona è il ritratto sociale. Non perché non sia astrattamente veritiero ma perché è pennellato molto rozzamente: non si può rappresentare la superficialità con tanta superficialità e l’artificiosità con l’artificiosità, né si dica che è un gioco di specchi. La scommessa estetica nella messa in scena del negativo è di sovrapporgli qualcosa che lo renda profondamente agli occhi dell’osservatore, e non basta vestire la Kidman come se fosse abbigliata per una festa di nozze ogni volta che si lava i denti. In realtà, il problema alla radice (che disturba anche l’andamento del thriller) è la scrittura disastrosa di David E. Kelley che rende implausibili sino alla macchietta personaggi di un certo rilievo (l’amica più stretta di Grace, il detective, il vedovo di Elena – che in verità è ancora più implausibile quando non parla – e il preside della scuola) e sbaglia praticamente tutti i dialoghi, tranne le battute dell’avvocato difensore e del nonno. Ogni volta che aprono bocca capiamo che lo sceneggiatore è rimasto invischiato mediocremente nell’incertezza tra l’adesione allo stereotipo convenzionale, l’obbligo di avanzamento della vicenda e una volontà rimarcante nella caratterizzazione dei personaggi senza mai trovare un equilibrio.
Il finale, poi, è un’accelerazione brusca e goffa verso il film d’azione del tutto sbilanciata con quanto la precede.
Ci si domanda sovente se possa essere indolore il passaggio dalla sala oscura al piccolo schermo, dal punto di vista dello spettatore: il quesito, in realtà, riguarda anche i registi, e Susanne Bier dimostra che un simile passaggio può essere ferale. È lei, che aveva dato prova tecnica sublime in Dopo il matrimonio (uno dei migliori drammi borghesi degli ultimi trent’anni) e raccolto meritatamente l’Oscar per In un mondo migliore, la vera, grande delusione della serie, della quale pure appariva come un marchio di garanzia: è incredibile che non abbia tirato il testo della sceneggiatura in faccia a Kelley e si sia al contrario piegata a sua volta a una regia piatta, che mai sfrutta spazialmente la potenziale densità psicologica delle tensioni in corso tra i protagonisti. La sua adesione alla televisione è consistita nel dimezzare il cinema.
La prova attoriale è l’unica cosa fuori discussione, almeno per i ruoli principali (incluso il giovanissimo Noha Jupe nella parte di Henry). Il compito alla fine era maggiormente difficoltoso per la Kidman, che doveva animare un personaggio più convenzionale delle intenzioni, che per Hugh Grant, al quale si chiedeva solo di alzare l’asticella, sino al disturbo di personalità, della sua abituale figura di gigione e scapestrato. E in qualche scena, con l’eccessiva compenetrazione, infastidisce umanamente non tanto come personaggio quanto come interprete.
The Undoing
Miniserie Sky Atlantic e Now (sei puntate)
Susanne Bier
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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