Un film che fa acqua da tutte le parti? Sì, ma in senso buono! Un mito? Sì, in senso tecnico. Ma procediamo con ordine e partiamo dalla trama che – per come viene abbozzata su certi articoli di presentazione – fa erroneamente presagire un torbido noir (visto che al botteghino non guasterebbe).Undine, una storica che lavora free-lance presso un museo di Berlino dove spesso accoglie come guida i visitatori ai plastici degli edifici cittadini, all’inizio del film è stata appena piantata dal fidanzato, Johannes, che ancora è assiso con lei al tavolino. Prima che quello si allontani lo avverte: “Guarda che se mi lasci devo ucciderti. Non ho altra scelta”. Non solo quello non gli crede, ma lei stessa supera rapidamente lo sconforto amoroso facendosi rimorchiare da un gentile palombaro che ha assistito a una sua dotta spiegazione sull’Humboldt Forum e con lui sprofondando in una zuccherosissima e romantica simbiosi. Ora fermiamoci, prima del “fino a che”.
Sono passato tre quarti d’ora. La convenzionale linearità di una simile trama è stata scalfita da alcune circostanze delicatamente surreali. Undine e Cristoph (il sub) incappano in un curioso incidente nel momento della conoscenza: lui inciampa provocando la rottura di un acquario, l’acqua per un attimo li sommerge e stordisce, in qualche modo il vetro ferisce Undine, sul suo corpo lascia delle apparenti ferite corrispondenti ai pesci rossi che le si sono depositati in grembo e che Cristophe rimuove. È in quel momento che sorge l’incanto. Poco dopo, Cristoph, che per la precisione è un sommozzatore industriale, conduce Undine sotto il mare e scopre il suo nome inciso sull’arco di un ponte sommerso. Avrete capito che il film si iscrive nel campo del realismo magico, e infatti è una sorta di fiaba e, come dicevo all’inizio, la riesplorazione di un mito: non genericamente quello delle ondine del mare delle nord, creature marittime prive di anima corrispondenti grosso modo alle nostre sirene, ma a quella Undine trasposta a inizio ottocento in un racconto di Friedrich de La Motte Fouqué e in una celebre opera di Hoffman.
Christian Petzold la adatta a modo suo, isolando l’elemento che più gli interessa, ossia il ciclo di morte e rinascita intorno alla vita, la necessità che la rigenerazione parta dall’uccisione di ciò che la precede e ingombra. La specialità della giovane storica, lo abbiamo detto, è la storia dell’urbanistica ed è un’abile narratrice di come Berlino, attraverso la sua anima architettonica, cerchi forme di distruzione e rigenerazione per fondere insieme lo spirito delle parti che hanno vissuto politicamente separate. La componente simbolica è dominante nel film, che scorre intorno a una narrazione semplice ma con le sue sorprese finali, scivola nell’acqua (altro simbolo di purificazione) per buona parte delle scene significative, resta felicemente incastrato nella ripetizione ossessiva della sonata BMW 974 di Bach, e dura il giusto, un’ora e mezza.
Undine è un film particolare che chiede di sintonizzarsi, appunto, sulla sua onda. Se lo si prende per il verso sbagliato il turbamento scivola nella comicità involontaria, e molti critici hanno mostrato di apprezzarlo assai meno del lavoro precedente di Pertzold, La donna dello scrittore. Personalmente, se lo avessi incontrato quel paio di anni fa gli avrei detto: “Se fai un altro film così ti uccido. Non ho altra scelta!”. Quello straniamento che dentro il contesto storico de La donna dello scrittore risultava pretenzioso, dilatato e confusionario, nella libertà espressiva, liquida e astorica del mito di Undine funziona magnificamente, e giova a mettere in luce la bravura di Paula Beer, premiata per l’interpretazione con l’Orso d’oro a Berlino e valorizzata anche dalla qualità dei montaggi quando è in scena da sola. Tra i riferimenti di Petzold, oltre alla sintassi cinematografica di Kieslowski e per altri versi di Lanthimos, paiono emergere quelli bagnati de L’Atalante e una strizzata d’occhio a La forma dell’acqua.
Undine
Christian Petzold
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
Scrivi un commento