Parliamoci chiaro, il problema di essere maledetto e incompreso Julian Schnabel non lo ha mai avuto, e anzi ha quasi duplicato il riconoscimento e il successo quale artista contemporaneo in una diradata ma significativa carriera cinematografica,
che ebbe il suo picco emotivo e formale ne Lo scafandro e la farfalla. E così, attratto dalle figure dei pittori dalla vita tormentosa, prima Basquiat e ora Van Gogh, parte con l’ottima intenzione di un film autoriale e libero da schemi triti, ma cede alla debolezza di un biopic sostanzialmente convenzionale che nulla aggiunge a quel che di Van Gogh si conosce e immagina e nulla ricava dalla libera rielaborazione delle fonti. La partenza promette piuttosto bene: far vedere come nasce l’opera nell’occhio dell’artista cominciando dai celebri scarponi, dei quali si assiste al passaggio dal pavimento alla tela, e movimentando l’immagine a strappi e inquadrature oblique come a ricostruire l’impeto, il disagio, l’insicurezza, l’intuizione che si agitano nella mente dell’artista. Si sforza di non calcare la mano sull’irruenza schizofrenica e affida a William Dafoe il compito di confezionare una persona gentile e amabile, oltre che una fisionomia credibile nonostante la differenza di età (più presupponendo che la cattiva cura di sé facesse di Van Gogh un uomo che portava male i suoi anni che ringiovanendo Da Foe). Ma poi calca la mano sulla cattiva accoglienza riservatagli, che trascende il ridicolo in una scena in cui una scolaresca a passeggio nel bosco si avventa come una ciurma di filibustieri caraibici su un quadro in plen air, sobillata dalla maestra che sputa velenoso biasimo sul fatto che tutti ormai pretendono di definire arte delle macchie senza forma e dal colore inappropriato. E se l’esperimento di far vedere i soggetti diventare quadro (come il postino Joseph Rulin o il dottor Gachet) ha una sua eleganza, esso fallisce senza riserve nel tentativo di applicarlo al paesaggio provenzale.
Gauguin e Theo sono abbozzati con uno scavo psicologico molto superficiale: il primo è un’icona, il secondo una macchietta. Della malattia e delle follie più crude e note, come il taglio dell’orecchio, si evita l’esibizione dei passaggi più pruriginosi, senza però riuscire a tracciare un serio percorso alternativo. Schnabel non riesce a dare conto in alcun modo del processo creativo interiore, né a questa lacuna possono sopperire alcuni banali dialoghi filosofici che sembrano presi da manuali divulgativi. Lo stesso ardimento formale si spegne per lunghi tratti, quasi fosse stato dimenticato, per poi riemergere con troppa bruschezza dietro filtri di colore disturbanti e all’interno di un montaggio squilibrato. Operando per sottrazione, e con molto rispetto del personaggio, il film finisce per frapporre una distanza emotiva con lo spettatore. Altro punto dolente è la colonna sonora: di rado se ne è ascoltata una così poco pertinente con la scena e il personaggio e tuttavia interferente, prepotente addirittura.
Van Gogh
Julian Schnabel
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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