Recensione del film “Il verdetto”

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Quale garanzia migliore, teoricamente, potrebbe esserci per assicurare che un film tenga rispetto al libro dal quale è tratto? Lo scrittore assume egli stesso la sceneggiatura, e per giunta è uno dei massimi narratori viventi, Ian McEwan. Le alchimie di un’opera artistica però non sono così nitide e cartesiane.

 

“Il verdetto” è il titolo blasonato (ricordate il film di Sidney Lumet?) che in Italia si è voluto dare a “The Children Act” (legge emanata in Inghilterra nel 1989 per meglio proteggere il benessere dei minori). La storia, trasfusa di peso dal romanzo “La ballata di Adam Henry”, è intrigante e intellettualmente stimolante. Una giudice Fiona May (Emma Thompson) si trova a dover decidere sul caso del figlio di una coppia di testimoni di Geova che, ricoverato in ospedale, si rifiuta insieme alla famiglia di ricevere una trasfusione di sangue per combattere la leucemia. I medici vorrebbero procedere coattivamente e il magistrato, stante l’eccezionalità del caso, compie un atto irrituale: va a visitare personalmente il ragazzo, al quale mancano pochi mesi per il raggiungimento della maggiore età, per soppesarne la capacità di autodeterminazione.

 

Questo tema principale si interseca con quello della fallimentare vita matrimoniale di Fiona, che non è messa lì tanto per aggiungere carne al fuoco: ciò che viene messo a nudo è la franca incompatibilità comportamentale e interiore tra la sua dedizione idealistica al mestiere, il profondo senso di responsabilità verso la comunità con il quale esso viene esercitato, e l’offerta di sé nella coppia e nella vicinanza intima. Fiona è ogni sera immersa nelle sue carte, il cui contenuto e intensità emotiva nemmeno sente il bisogno di condividere, stupendosi semmai che il marito non se ne appassioni leggendo le cronache giornalistiche che le riportano. E quando lui, con una sfida il cui contenuto provocatorio supera quello pulsionale, la avverte che ha deciso di avere un flirt, e anzi sta per uscire di casa a questo scopo, lei non trova alcun argomento che ecceda l’arrocco perbenista.

La storia, dunque, parla della fatica umana di attribuire senso alla totalità, e di come sia facile sbilanciare l’esistenza privilegiando la maschera pubblica (con la fatica emotiva ma anche il riconoscimento che ne deriva), riducendo a vuota forma i sentimenti perché non si ha il tempo di provarli. Emma Thompson, con una prova recitativa sublime, rende nella mimica con feroce e dolce precisione quest’alternanza di dignità, rabbia e senso di inadeguatezza, che trasporta il pensiero del giudice dall’uno all’altro dei suoi mondi separati.

 

Eppure non è sufficiente. La prima parte è frigida in modo forense. C’è n’è una seconda nella quale, salvato dalla sentenza di Fiona il giovane, grato morbosamente alla donna e inviperito con i genitori pronti ad arderlo quale agnello sacrificale per la propria fede, cerca di avvicinarla ma sbatte contro la scarsa abilità di Fiona nel dismettere l’abito della conveniente distanza istituzionale (salvo sbracarsi proiettando la propria fragilità familiare e incautamente offrire al ragazzo il varco di un’illusione che avrà conseguenze drammatiche). Qui un eccesso di enfasi nuoce alla verosimiglianza e all’immedesimazione, anche nell’interpretazione di Fionn Whitehead, già apprezzato in Dunkirk: se il suo personaggio ha bisogno di trasfusioni a lui non sarebbe nuociuta una batteria di sedativi.

 

Più che sceneggiare McEwan ha fatto fare dagli attori un reading del suo romanzo. Solo che quel che sul testo si dipanava fluidamente, accompagnato dalla voce del narratore, sullo schermo si appesantisce: si può peccare di fedeltà verso un libro anche violandone lo spirito, dimenticando cioè che il mutamento del mezzo espressivo esige un nuovo raccordo. Un riporto tanto pedissequo esigeva una struttura più teatrale o, all’opposto, un dinamismo estremo e creativo del regista, Richard Eyre, che invece pare essersi addormentato davanti alla macchina da presa. Nella sostanziale invarianza del testo, persino la soluzione dei dilemmi morali, che nel romanzo sfumava ellitticamente giusto quel tanto che serviva per rendere più attiva la coscienza del lettore, nella povertà o nell’eccesso dei mezzi visivi che li incorniciano si riduce a una veloce stilizzazione.

 

Il verdetto

Richard Eyre

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2020-09-11T15:12:39+01:009 Novembre 2018|Il Nuovo Giudizio Universale|

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