Recensione del film in viaggio con Yao

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Tra i sottogeneri cinematografici che fanno furore attualmente ce ne sono due

fusi insieme ne Il viaggio di Yao (così come in Green Book): il road movie e quello che potremmo definire film di sentimentalismo extraparentale. Si tratta di pellicole che hanno al centro il sorgere di una forte relazione affettiva tra due persone le quali non era probabile che instaurassero un legame. Omar Sy ne aveva offerto un esempio nel paradigma del genere, Quasi amici. Quel titolo col quasi è paradigmatico, perché in questi film c’è sempre qualche dato, anagrafico o sociale, che colloca il rapporto in un ambito non esattamente coincidente con l’amicizia e semmai surrogatorio di una qualche mancanza familiare (breve digressione non troppo digressiva: vorrà dire qualcosa che i film che osano rappresentare un’affettività familiare- e se la rappresentano partono da una divisione della famiglia, tipicamente quella dei genitori- o sono produzioni sguaiatamente commerciali o schiettamente comiche). Qui c’è di nuovo Omar Sy (pure come produttore), e il legame affettivo nasce con il tredicenne Yao, che diventa per lui non il figlio che non ha avuto ma il figlio che non è venuto. In effetti, Seydou Tall è un attore francese, immigrato di seconda generazione, che ha accettato un invito nel suo paese d’origine, il Senegal, per presentare il suo libro allo scopo di fare il viaggio con il figlio. Ma la madre del bambino, dalla quale Tall è separato, gli nega questa gioia e Seydou parte mestamente da solo.

 

Ecco però che si presenta da lui Yao, con una copia del libro divorata sia da lui che da una capra che ne aveva reso illeggibili parti diligentemente ritrascritte da Yao a mano: viene da un villaggio molto lontano e si è imbucato da solo su un treno fino a Dakar per potere incontrare il suo beniamino, che aveva un padre sarto, proprio come lui. Seydou trasferisce su quel bambino delizioso e intelligente l’inappagamento paterno che, a quel che si è inteso, non riguarda solo quella trasferta. Decide così di riaccompagnarlo a casa e inizia un percorso che lo condurrà, in modo casuale, alle soglie del suo villaggio di origine. E sulla riva di fronte, quando due sole giornate di viaggio attraversando il Senegal lo hanno per la prima volta immesso nelle sue radici più profonde, avverte la necessità di congiungerle al figlio che deve recuperare.

 

Il regista  Philippe Godeau, che in Africa ha vissuto diversi anni, usa dei meravigliosi campi medi, anche quando uno se li aspetterebbe lunghi. Così, ad esempio, nella scena esteticamente migliore del film: una folla coloratissima che ingombra con geometria mondrianesca la strada carrabile per obbedire al richiamo del muezzin. Un’altra bellissima scena costruita dentro un altro campo medio (ma qui è cosa più ortodossa) racchiude nella cornice di una spiaggia Seydou e un’anziana africana che prega gestualmente per l’anima di lui. La rievocazione delle due sequenze offre l’idea di quel che porge il film: la raffigurazione di un Africa non convenzionale e trasversale, non una cartolina nonostante certi paesaggi struggenti. Potrebbe essere il suggerimento per una serata nella lontana evenienza che Salvini decidesse di vedere un altro film insieme alla fidanzata, oltre Dumbo.

 

Se però lo stereotipo non è nelle situazioni, si nota un eccesso di potatura per la volontà di rappresentare solo quel che c’è di buono; e una parallela inclinazione alla mielosità, sulla quale un cuore tenero delle sale oscure (io per esempio sono stato espulso da diversi cinema per quanto piango) potrebbe sorvolare solo per suo demerito di obiettività critica. Yao, che trova un interprete superbo in Lionel Luis Bassel ha una credibilità letteraria pari a zero, pur volendo ammettere che sia un campione di sensibilità. Infine, c’è la questione del tempo. E’ evidente che lo shock culturale primario cui va incontro l’occidentalizzato Seydou è il rallentamento del tempo. E non disturba, secondo me, che questa rilassatezza stiracchi certe parti del film: è coerente. Però, ecco, che alla fine debbano dircelo pure a voce che quello africano è un tempo diverso e bisogna imparare a rallentare il nostro è troppo Rai Educational. O potrei dire: ruffianamente Slow Food. Ma Il viaggio di Yao è così garbato che non ho voglia di offendere.

Il viaggio di Yao

Philippe Godeau

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2020-09-11T15:01:29+01:0012 Aprile 2019|Il Nuovo Giudizio Universale|

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