La prima scena de La vita che verrà- Herself è una brutale violenza domestica: Sandra viene pestata dal marito, Gary, che ha scoperto la sua intenzione di andarsene con le due figlie. È una scena che ogni tanto, sfumata, ritornerà in flashback ma l’ultima tanto cruda cui assisteremo: immediatamente dopo Sandra trova finalmente il coraggio di separarsi, e ottiene un provvedimento restrittivo a carico del marito che però conserva il diritto di vedere le bambine nel week-end. In queste occasioni lui cerca di persuadere Sandra a tornare indietro. Sono scene brevi, ma il senso di violenza, prevaricazione, trappola, minaccia che sottilmente trasmettono mette i brividi: non dico che ad assistervi siano peggio del pestaggio, ma lasciano un segno ancora più profondo, illustrano uno stato permanente e profilano alla perfezione un modello negativo. Gli attori hanno il loro merito, lasciando che i ruoli escano definiti da quella tensione, senza caricarli sino alla ridondanza: Ian Lloyd Anderson e soprattutto Clara Dunne, che ha anche scritto il film insieme alla regista Phyllida Lloyd – di esperienza per lo più teatrale ma anche con un palmares cinematografico di pregio (Mamma mia! e The Iron Lady).
Il plot, intrigante e intelligente, è molto adatto a far evolvere la storia dal rischio dello stereotipo: con la separazione Sandra, soffocata dagli impegni di lavoro e dalla burocratizzazione dei pur presenti servizi sociali irlandesi, non riesce a seguire le figlie come vorrebbe, ma un giorno si imbatte nel video di un architetto utopista che insegna a costruirsi da soli una casa con 35.000 euro. Incontra l’inatteso appoggio di una brava e burbera signora, l’ex avvocato Peggy, da cui presta servizio, tira fuori una grande determinazione, convince il tenero e burbero Aido (eh, sì, in partenza burberi entrambi ma poi un cuore d’oro che vale per dieci: annotate, che tra poco torniamo sul punto), un capocantiere quasi in pensione, mette in piedi nei week-end una squadra di volontari. Tutto all’insaputa teorica del marito, che però da un episodio trae uno spunto inatteso per mettere in discussione l’affidamento. Sandra è chiamata a misurarsi su due fronti: la costruzione della casa e la tutela di se stessa come madre, e della figlie da quel genitore malsano. Non solo una traccia narrativa originale che vitalizza un canovaccio di genere, ma una storia universale e femminile di crescita, riscatto, rinascita e speranza che ben si accasa dentro una metafora abitativa.
C’è un messaggio a cui le autrici sembrano tenere molto: il valore della comunità. Purtroppo, così brave ad evitare la banalizzazione nel tema della violenza, le due vengono schiacciate dall’urgenza di rendere edificante e angelicante tale ultimo messaggio. Ecco che la tutta la struttura degli altri personaggi si ritrova ristretta in psicologie di maniera (la burberità che dicevo o una bontà evangelica) e che la selezione della squadra di lavoro viene composta con un manuale Cencelli della marginalizzazione sociale (l’immigrata africana, il down, il simpatico sbandato, la donna di colore ecc.); e la regista, per questa parte, perde malamente il controllo estetico e sembra tornata, anche musicalmente, dentro Mamma mia!. Rientra dalla finestra quell’appesantimento edificante che con tanta cura si era fatto accomodare fuori dalla porta principale – per tacere del fatto che il climax da questo baraccone al colpo di scena è parecchio telefonato.
Sono questi difetti a farne “solo” un film alla Ken Loach, ma non un film che potrebbe avere fatto Ken Loach. Se però ci astraiamo della doverosa cavillosità della critica cinematografica, rimane – oltre al buono che si è già detto – un film ben recitato (splendide anche le bambine) in cui il tempo scorre alla meraviglia e ci si affeziona ai personaggi. E se poi rientriamo un attimo nella cavillosità della critica cinematografica, la collocazione in diversi piani di altezza dei personaggi a seconda della loro gerarchia psicologica nelle singole scene è magistrale, quasi hitchockiana.
La vita che verrà
Phyllida Christian Lloyd
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
-
Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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