Può un film essere cinico e romantico allo stesso tempo? Woody Allen ha più volte mostrato che se po’ fà, e non poteva mancare il bersaglio (gli 83 anni, per ora, non si mettono nemmeno in conto) proprio nella sua Manhattan, adorata sì, ma nonostante questo- anzi, in fondo proprio per questo- rimestata caricaturalmente nelle liturgie della sua upper class colta (“gente fuori mercato che discute di libri fuori catalogo”). Il plot è molto semplice. Due ventenni universitari in una cittadina di provincia, lei provenienti dall’Arizona e lui newyorkese, trascorrono un week-end a New York: Ashleig (Elle Fanning), che ha ambizioni giornalistiche, ha ottenuto di intervistare un famoso regista per il piccolo giornale locale e Gatsby (Timotheé Chalamet), grazie alle vincite a poker che per lui costituiscono una sorta di reddito di cittadinanza, finanzia la trasferta in pompa magna (suite con vista a Central Park) per rendere memorabile la vacanza- la chiusura è prevista con passeggiata in carrozza. Ma subito ci rendiamo conto che le rispettive fantasie si indirizzano a mete diverse: l’ambiziosa provinciale di Tucson sogna di realizzare un’intervista da Pulitzer mentre Gatsby-il-nome-è-tutto-un-programma si crogiola nel suo colto decadentismo e desidera ardentemente introdurre la pulzella al jazz fumoso, all’arte e ai suoi altri luoghi di elezione, cercando intanto di scansare un party di famiglia. Le sue attese tuttavia si scontrano con l’imprevisto eccesso di familiarizzazione di Ashleig con il regista in crisi esistenziale e poi, a catena, con lo sceneggiatore e un divo del cinema. Dal canto suo, Gatsby si imbatte nella sorella minore di una sua vecchia fiamma (Selena Gomez), oppressa dalla rigidità degli schemi sociali e infatuata del giovane, e si trova risucchiato in un sorprendente confronto con l’opprimente madre.
Il resoconto della trama di solito non rende giustizia ai film di Woody Allen. Finisce sempre come se uno raccontasse che Colazione sull’erba di Manet contiene due uomini che chiacchierano con una tizia nuda seduta a fianco, e hanno sbriciolato tanto con la loro merenda. La forza irresistibile del regista è nell’intelligenza e profondità dei dialoghi e nella loro fulminante comicità, e nella netta definizione dei tipi psicologici alle prese con la declinazione di domande esistenziali: è così che storie apparentemente semplici e socialmente circoscritte (ma con qualche dettaglio non comune) diventano, per lo spettatore, affascinanti meccanismi narrativi e sofisticati esercizi intellettuali con un afflato universale. Nella lettura di Un giorno di pioggia a New York non sono certo che valga la pena di caricare di significato simbolico e di influsso introspettivo né la pioggia né New York. Sicuramente ha una certa importanza il ruolo del caso e delle contingenze, sovente in primo piano nelle opere del grande cineasta: e tuttavia poche volte come in questo film il segno finale è un richiamo alla responsabilità- solo personale- nel prendere in mano il proprio destino. Non a caso la frase più bella del film (direi una delle prime dieci dell’intera filmografia di Woody) è: “La vita reale è per chi non sa fare di meglio”.
Un giorno di pioggia a New York (che vede la luce dopo la risoluzione del contratto con Amazon) è fintamente ambientato nei giorni nostri. Per l’età che hanno, i ventenni discutono con una competenza inverosimile di questioni filosofiche e letterarie, e non vi è riferimento alcuno ai cambiamenti indotti dalla modernità: persino i cellulari ci sono giusto perché qualcuno avverta che deve differire un appuntamento. Tutto è allegramente anacronistico e vintage, e lo stampo estetico del film si pone orgogliosamente in scia al cinema degli anni ’40. Di più aderente alla contemporaneità (ma poi chissà, all’epoca non se ne parlava..) vi sono i torbidi rapporti tra gli artisti e le giovani donne che in qualunque modo si avvicinano loro in cerca di riconoscimento, come è per Ashleig, che la tempra naif rende in certi casi inadeguata sino all’idiotismo, ma che pur incontra interlocutori predisposti a leggere l’avvenenza acerba e l’argomentare ingenuo come lo spirito ammaliatore della musa (e naturalmente altri che cercano semplicemente di utilizzarli per infilarsi con lei tra le lenzuola). Allen non è qui certo tenero nella descrizione dell’ambiente cinematografico ma, attraverso l’atteggiamento di Ashleig, sottolinea l’esistenza di dinamiche ambivalenti. Se poi oggi dovesse fare un aggiornamento dei malcostumi propri di quel mondo, sarebbero da includere le pavide dichiarazioni di Chalamet e Gomez, che a film concluso hanno partecipato alla orribile campagna contro il regista, affermando che erano pentiti di avere girato per lui. Nel film hanno fatto una figura migliore, brillando come tutti gli attori che hanno la fortuna di essere diretti da Allen.
Un giorno di pioggia a New York
Woody Allen
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
Scrivi un commento