Il film comincia con una scena cruda e reale che potrebbe far alzare definitivamente dalla poltrona una quota di spettatori dallo stomaco delicato : un’operazione a cuore aperto. Yorgos Lanthimos mette subito in chiaro che non userà troppi riguardi verso lo spettatore. Chi resiste scoprirà che “Il sacrificio del cervo sacro” è però un’operazione a cuori chiusi. Algidi, intorpiditi, irraggiungibili.
A Steven, un apprezzato chirurgo scappa un drink di troppo prima di entrare in sala, e a causa di ciò muore sotto i ferri un paziente. Il figlio sedicenne di costui, Martin, instaura con il chirurgo (Colin Farrell) afflitto dal senso di colpa una relazione psicologica deviata e antagonista in un modo direttamente proporzionale all’apparenza del legame affettivo che le prime scene suggeriscono. Il ragazzo infatti sogna la vendetta e mira a realizzarla mediante l’uccisione, da parte dello stesso chirurgo, di uno dei componenti della sua famiglia, composta dalla moglie (Nicole Kidman), dalla ragazza teen-ager e da un vivace bambino di otto anni (così, di passaggio, gradirebbe anche che cavalcasse la sua madre vedova). Raccontato in quest’essenzialità parrebbe un thriller più o meno classico. Ma Lanthimos è un regista visionario, che molti hanno conosciuto con il fantastico “The Lobster”; e gli avvenimenti, per quanto fisicamente molto crudi, seguono una cadenza magica, che non ha nessuna spiegazione retrostante e che tuttavia viene accolta acriticamente dai protagonisti nel segno del percorso indicato da Martin, quello di un riequilibrio dell’ordine delle cose. I figli vengono colti da paralisi alle gambe, e Martin preannuncia che, se Steven non effettuerà la sua scelta, la morte si abbatterà su tutti e tre i suoi familiari, preannunciata dal sanguinamento degli occhi.
Essendo Lanthimos il massimo esponente della nouvella vague registica greca, viene quasi d’obbligo annoverare il film tra i remake della tragedia greca, tanto più che cita esplicitamente l’Ifigenia in Aulide di Euripide. Ma Il Sacrificio del cervo sacro si cimenta, più che col Fato, con la nascita della religione, le sue vane offerte votive (orologi, sesso) alla Divinità che Martin incarna, la ritualità, la credulità, la crudeltà, l’annientamento del capro espiatorio. Insomma forse più Renè Girard che Euripide, salvo che non è possibile alcuna catarsi e autentica ricostruzione comunitaria. Perché il manto simbolico è allacciato intorno alla società contemporanea e alle sue finzioni sociali e familiari.
Lanthimos prende molto da Haneke e Von Trier e (visualmente) da Kubrick. E’ un regista che osa continuamente, e con tanta ricchezza non può essere tutto perfetto. Il passaggio dal mistero (che rapporto c’è tra Martin e Steven) alla rivelazione e al dramma si fa attendere troppo. La recitazione si affida a una compenetrazione nei ruoli talmente rigorosa da risultare ingessante. Il giochetto di legare il montaggio delle scene anticipando in una sequenza il suono di quella successiva è carino per un po’ ma alla lunga è lezioso e stufa. Alcune cose però sono superbe: la capacità (già ammirata nei film precedenti) di scrivere, insieme a Efthymis Filippou, le migliori sceneggiature dell’assurdo del cinema contemporaneo (meritatissimo il premio al Festival di Cannes 2017); il conseguente funambolismo nel proporre l’emersione del ridicolo dentro il tragico; una notevole varietà di inquadrature da angolazioni ardite per dar conto del caos e dell’asimmetria nelle relazioni tra i personaggi; la dote di trasfigurare struggenti brani di musica classica, raggelandoli nella frizione con le immagini; l’impressionante morsa della tensione ininterrotta accompagnata dalla misurata dilatazione dei tempi (tale è il peso dell’attesa dell’ignoto che quando accade qualcosa di sgradevole e persino ripugnante, la tensione si allenta e lo spettatore respira). Non sono in molti a potersi permettere un simile repertorio. Né più di tanto si può rimproverare la freddezza dello sguardo a un artista cerebrale e simbolista (e poi, mai come in questi caso, parlando di chirurghi e anestesia era d’uopo) che si pone in modo radicalmente critico verso le istituzioni borghesi e lo stato della civiltà. E’ vero, semmai, che in questa ferocia ideologica Lanthimos non eguaglia Haneke se non nelle intenzioni, e cade nella banalità quando vorrebbe essere esplicito (come quando la Kidman propone al marito di risolvere la questione sopprimendo uno dei figli, tanto hanno il tempo di farne un altro). E ultimo peccatuccio (beh, non proprio venalissimo) i finali di Lanthimos, anche questo, non lasciano mai del tutto soddisfatti. E però è il rovescio della medaglia della drammaturgie intricate che riesce a costruire e che al momento di risolverle un po’ aggrovigliano anche lui.
Il sacrificio del cervo sacro
Yorgos Lanthimos
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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