Sarebbe stato stupido, ovviamente, rivolgersi a Schoenberg o qualsiasi altro musicista atonale del Novecento e dirgli:
“Signore, non sarebbe il caso di curare un po’ di più la melodia?”.Potrebbe sembrare che, nel campo cinematografico, sussista la medesima incongruenza nel chiedere conto al regista Terence Malick della labilità narrativa dei suoi film, dato che egli è l’alfiere di un prototipo alternativo della narrazione visiva, in cui il visivo è tutto e talmente deborda da partorire una narrazione oppure sostituirla con una chiave metafisica. In effetti, per quanto nessuno (certamente neppure Malick) immagini che un film come “Song to song” possa competere con i suoi capolavori, anche questa sua ultima opera presenta, e a tratti radicalizza, quell’estetica compositiva poggiata su un’impeccabile eleganza formale che rivisita l’immagine sempre in modo molto personale e vaporoso. Il cinema sconta, ai giorni nostri, il rischio di vedere fagocitata la sua autonomia: da un lato la pura video-arte (non a caso diversi video artisti hanno fatto il salto verso il cinema), dall’altra un linguaggio pubblicitario che del cinema ha raccolto, a certi livelli, diverse sofisticazioni, per trascurare la diversa direzione verso cui tirano i video sulla rete. Bene, Malick, nonostante fondi tutto sulle immagini, non rischia mai di inciampare in una contaminazione inappropriata. Per quanto dal punto di vista tecnico possa esservi una parentela con linguaggi visivi paralleli, è capace sempre di tenerci ben saldi dentro una percezione distintamente cinematografica, e sarebbe difficile svelare l’arcano di come questo accada. Conclusione di una trilogia che comprendeva “Knight of cups” e “Voyage of time” (qualcuno l’ha tematicamente interpretata come una trilogia sulla gnosi), questo “Song to song” esibisce la fotografia autoriale di Lubitsch, un montaggio erede di quello per “attrazioni” di Ejzenstein, la qualità tipicamente hitchcockiana di focalizzazione sugli oggetti (facendone però feticci mnestici invece che perni narrativi), la prospettiva dell’inquadratura umana quasi mai frontale come a sottolinearne l’ambiguità, l’irrequietezza nevrotica della camera cui fa da controcanto una natura spesso intimamente ostile, una frequente dissoluzione liquida dei confini visivi. La narrazione vive all’interno di questo quadro, suggerita per lo più, esposta a salti temporali anche all’indietro, codificata dentro flussi di coscienza multipli che però fluiscono, appunto, attraverso le immagini.
E allora, tornando, alla domanda iniziale: è corretto giudicare il contenuto di un film di Malick secondo i criteri ordinari, che poggiano anche sulla coerenza della sceneggiatura, sul plot, sull’analisi introspettiva dei personaggi, sul messaggio che si intende trasmettere? In questo caso purtroppo è proprio Malick a costringere alla risposta affermativa perché dai dialoghi si intuisce quanto quel messaggio a lui prema e perché nell’occasione si affidi anche a uno straccio di trama: il classico menage-a-trois, qui ambientato ad Austin, nel quale si trova immersa la giovane aspirante musicista Faye (Rooney Mara), che non è per nulla Faye-da-te , e quindi divide letto e attenzioni tra il suo collega BV (Ryan Goslin, che ancora suona ‘sto piano) e il produttore Cook (Michael Fassbender), che concupisce e devia anche una cameriera mancata insegnante (Natalie Portman). Cook è una figura demoniaca, ma il vero demone è il desiderio che tutti divora e consuma e tutti induce a sprecare i loro gesti dalla perfetta estetica al servizio di una causa sbagliata e superficiale. Quella parata di star del grande schermo (nel computo va aggiunta anche Cate Blanchett. Ci sono anche Patti Smith, Iggy Pop e altri che fanno se stessi, ed è la cosa umanamente più interessante del film) è un esubero d’immagine eccessivo e risulta fastidioso (magari volutamente, ma non è uno scherzo ben riuscito) a margine dei roboanti tormenti esistenziali, che non sembrano tanto all’altezza dei personaggi e che si concludono in maniera goffamente edificante. Insomma, se film rarefatto deve essere che rarefatto sia: l’intento pedagogico e l’abbozzo di narrazione finiscono per tirarlo a fondo. Quei vacui interrogativi esistenziali, anziché solleticare la nostra risposta interiore, fanno al massimo venir voglia di replicare: “Scusate, mi ero distratto…avevate detto qualcosa?”.
Song to song
Terrence Malick
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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