Recensione del film “Suburbicon”

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In partenza, un deliziosamente improbabile spot promozionale del paese probabilmente californiano di Suburbicon, presentato come il luogo ideale dove vivere negli anni ’50. Subito, il film prosegue con le consegne del postino in mezzo alle linde villetta a schiera dai prati tirati a lustro e con il suo sbigottimento quando incappa in un’impensabile tipologia di inquilino: un’elegante signora di colore.

Già, è arrivata la famiglia Meyers, coppia con bambino, a perturbare la pace della comunità, che immediatamente si raduna chiedendo conto dello scandalo alle autorità. La scena rapidamente si sposta in una casa del vicinato, in cui risiede una famiglia apparentemente di più larghe vedute, tanto da spedire il bambino a giocare a baseball con il coetaneo nero. Ma ecco che una notte in questo stesso domicilio si introducono due balordi che cloroformizzano quel noioso brav’uomo di Garden Lodge  (Matt Damon), sua moglie, rimasta paralizzata dopo un incidente d’auto (Julianne Moore), sua cognata gemella brrravadonna che pietosamente dà una mano (Julianne Moore) e il ragazzino Nicky (un fantastico esordiente, Noah Jupe), solo che con Julianne Moore A (la moglie) ci vanno giù con la mano troppo pesante. Magari sarà stata una vendetta per quel principio di socializzazione di Nicky con il nuovo compagnetto, pensiamo noi, ancora persuasi che il tema sia la segregazione razziale? Macchè, fuori strada. Da questo momento sembra vivere sullo schermo una coppia narrativa separata in casa.  Uno è un perfido e grottesco thriller noir, che progressivamente va a occupare ogni spazio. L’altro un racconto sull’odiosa inciviltà che però, dopo un episodio paradigmatico al supermercato (aumento fulminante di 20 dollari ad articolo, personalizzato alla cassa per Miss Myers, così se ne va) si riassume e dissolve in un lungo e violento bagno di folla dinanzi la villetta dei trasgressori di pelle, e uno sbraitare educatamente sintetizzabile nella domanda: “Che ce fate voi qua?”, che però (da tutt’altra angolazione, puramente filmico) è la stessa che dopo un po’ rivolgono gli spettatori ai poveri Meyers. Certo, uno potrebbe dire guarda questo branco di idioti, se la prendono con i neri e a due metri si potrebbe raccogliere il sangue con le taniche grazie all’indole criminale della borghesia bianca, e del resto riconoscere la funzionalità reciproca del trittico idiozia/razzismo/criminalità. Però è davvero pochino, e in questi termini ci potrebbe stare qualsiasi altro vizio sociale.

 

Insomma, come se qualcuno avesse sovrapposto due corpi estranei. Ma attenzione! E’ esattamente così! E quel qualcuno è George Clooney, che ha firmato il suo sesto film da regista prendendo una sceneggiatura  dei fratelli Coen risalente al 1999 con tanto di massacri e piani criminali sgangherati in stile Fargo e incollandocene sopra un’altra, con le consuete ambizioni di impegno politico e sociale. Ovviamente si tratterebbe di narrazioni compatibili con l’obiettivo finale, la denuncia del perbenismo, dell’egoismo e dell’ipocrisia middle class, pronti a deflagrare nella follia razzista e nel crimine per avidità, con il sottinteso che il dito è puntato non solo contro l’America degli anni ’50 ma pure contro quella di oggi. Si diceva però che la congiunzione narrativa è assai debole e in più è il mood che entra in frizione, poichè il tenero Clooney se da un lato trasferisce fedelmente la ferocia dei Coen sullo schermo dall’altro non riesce a celare la sua visione fiduciosa del prossimo e del futuro, sfociata in un finale intelligentemente popolare centrato sui due bambini.

 

Se è vero che “Suburbicon” non brilla né per interna coerenza del materiale né per originalità, il film rimane tuttavia una lezione di rigore formale e un frizzante intrattenimento. La vera sorpresa è il livello quasi hitchcockiano di suspense con cui Clooney tiene lo spettatore attaccato alla sedia, e questa qualità si aggiunge alle altre già numerose che lo rendono un imitatore non pedante del cinema classico. Magistrale, ai limiti del maniacale, è l’impianto scenografico, con un’ambientazione che attraverso la cura di ogni dettaglio ci porta di peso nell’America del boom. Tra le tante sequenze accattivanti nel registro tragicomico una è destinata a circolare come marchio del film, quella in cui Oscar Isaac nei panni di un investigatore assicurativo dal naso fino (beh, a dire il vero, non è che ci volesse troppo), smaschera, cercando di trarne lucro e ricavandone invece rogne non secondarie, il delitto che in casa Lodge si voleva occultare…  Un buon indennizzo per chi non si accontenta delle buone intenzioni programmatiche, che hanno lasciato l’amaro in bocca persino alla comunità afroamericana per quanto non scostano mai l’occhio dai bianchi.

 

Suburbicon

George Clooney

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2020-09-11T15:16:25+01:0014 Dicembre 2017|Il Nuovo Giudizio Universale|

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