E’ sempre un compito improbo raccontare una vicenda scottante che in qualche modo è ancora in corso. Si poteva prevedere che Alessio Cremonini, scegliendo di girare un film sulla drammatica morte di Stefano Cucchi, si focalizzasse sulla denuncia del pestaggio o sul seguito giudiziario, che dopo una sentenza di assoluzione degli agenti si è riaperta nel 2017 per la caparbietà della sorella Ilaria. Il regista ha scelto invece tutto un altro profilo,
dettagliarci i sette giorni che separarono il pestaggio dalla morte con una ricostruzione processualmente corretta, rispettosa e composta verso tutti i protagonisti, aliena da sensazionalismi e agiografie. Nel contesto che ci propone la chiave di lettura, non viene suggerito che la violenza sia eretta a sistema: sistema è piuttosto l’indifferenza del leviatano burocratico che si palleggia il detenuto per sette giorni.
Come è noto il giudice che nel film nemmeno si degna di guardare il volto tumefatto di Cucchi, decise la carcerazione preventiva per il trentunenne pregiudicato, fermato nella notte del 15 ottobre 2009 per detenzione e sospetto spaccio, e questi, dopo una notte in cella di sicurezza e una a Regina Coeli, venne spedito nella struttura protetta (cioè un reparto per detenuti) dell’ospedale Pertini, dove morì il 22 ottobre. Quel che è certo è che Cucchi, tra agenti, personale pubblico e sanitario, incontrò un centinaio di persone, che tutte si impressionarono del suo stato fisico, che a tutti lui ripetè inverosimilmente di essere caduto dalle scale, che molti mostrarono la propria incredulità ma che nessuno mosse un dito per segnalare immediatamente l’enormità della situazione o per approfondire il quadro clinico. “Come vuoi”, “Contento tu”: la reticenza di Cucchi e finanche la sua resistenza nel mostrare le ferite o nell’accettare radiografie diventavano comode stampelle per appoggiare la pavidità, l’inclinazione all’inerzia e la distanza empatica dai detenuti. Perché Cucchi offrì l’avallo della sua passività? Forse temeva che più facilmente si sarebbe risaliti alle prove del suo spaccio (la droga era conservata in una casa la cui esistenza era ignorata dall’autorità), forse tanta rassegnazione era legata al rispetto di un codice criminale (chi denuncia è un infame) che Cucchi riconosceva e nel quale gli agenti si erano inseriti praticando una punizione che quel codice richiamava: non a caso, Cucchi inveisce in tribunale quando, in una cornice di regole legale, gli viene inflitta la carcerazione ma rispetto ai suoi aguzzini recrimina di rado, né del resto quando ci prova si sprecano gli incoraggiamenti.
Cucchi ci viene presentato per come è probabile che fosse: colpevole, socialmente innocuo al di fuori del giro dello spaccio, bruciato irrimediabilmente dalla tossicodipendenza, mite, fragile, autopunitivo, attaccato alla famiglia, sfiduciato verso il prossimo quanto verso se stesso. Il corpo martoriato che il film ci espone e disvela senza tradire il pudore del personaggio è la rappresentazione dei fatti che il film si sforza di non appesantire in alcun modo. Anche gli episodi moralmente più orribili, come il reiterato rifiuto burocratico opposto ai familiari di vedere il figlio o la notifica della morte candidamente manifestata dalla richiesta di un carabiniere che presentatosi a casa della madre le chiede la firma di autorizzazione all’autopsia, non hanno bisogno che si alzino i toni. Di questa asciutta sobrietà Cremonini fa la sua cifra di militanza e impegno civile. Lo straordinario Alessandro Borghi asseconda l’intenzione registica con una perfetta aderenza fisica e vocale. Anche se non vi è nessuna scena in soggettiva ci troviamo spesso a guardare attraverso gli occhi di Stefano, catturati dalla messa in scena del rapporto di sudditanza che lo marchia verso tutti gli interlocutori in scena.
Alcune scene ricercano mirabili e raffinati equilibri compositivi: ad esempio quella in cui Cucchi e gli agenti salgono nell’ascensore per la perquisizione della casa genitoriale o un’altra dove la macchina da presa percorre lentamente uno spazio che abbraccia Cucchi e altri due arrestati in attesa dell’udienza, giocando delicatamente sulla dimensione del fuori campo. La scelta cromatica è cupa, respingente, riflessiva. La produzione di Netflix, tanto lontana dalla sua estetica prediletta, lascia ben sperare per il futuro.
Sulla mia pelle
Alessio Cremonini
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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