Il club Amanti Incalliti di Wes Anderson ha considerato The French Dispatch una stanca ripetizione del suo cinema, ridottasi a puro stile e calligrafismo senza più attenzione allo sviluppo di una storia o allo spessore dei personaggi. Molti di loro hanno concluso che si trattasse della sua opera più formale e noiosa, lontana dall’apice di Grand Hotel Budapest. Per me, che mai ho troppo apprezzato Anderson e ho trovato Grand Hotel Budapest uno dei film più sopravvalutati degli ultimi dieci anni, al decimo necrologio artistico dedicato al regista (quasi parallelo al necrologio che apre questo film, come vedremo tra un attimo: il ricercatore di specularità Anderson avrà apprezzato) mi è scattato l’impulso di riacchiappare The French Dispatch per i capelli, prima che sparisse dalle sale (in qualche città potete ancora farcela pure voi). Mi sono detto: vuoi vedere che, liberatosi della zavorra di quelle trame assurde e dei clowneschi personaggi, la sua colta disinibizione espressiva riesce felicemente a saturare lo schermo da sola e straripare nella sua forma vertiginosa? Ed è proprio così! In quest’opera Anderson mostra che la coerenza e la tensione dei suoi schemi narrativi reggono per una ventina di secondi, il tempo di una gag o uno sketch, distribuite generosamente; e che portare sino in fondo la stilizzazione drammaturgica libera di profondità i soggetti narrativi, allineandoli alla pari privazione di profondità della sua tipica immagine frontale.
Fortemente immerso nelle origini della storia del cinema (non solo pieno di bianco e nero ma innervato della medesima estetica e ritmica sincopata, oscillante tra il fermo immagine e l’accelerazione surreale) ma pure trascendente in una sorta di ricerca trans-visiva da avanguardia artistica, il film è un affastellamento archivistico, un catalogo generosamente disordinato, una tela miniaturista, un bric-à-brac per sognatori che trova la sua ideale (ideale sia in senso di topos letterario sia in senso di non realistica) collocazione nella Francia d’antan.
Il format (più che il plot) ruota intorno a una rivista americana, The French Dispatch appunto, dislocata in Europa, cartacea fotocopia del New Yorker, e prende origine dalla morte del suo fondatore e direttore (Bill Murray) e dalla riunione dei redattori che si cimentano nella scrittura del necrologio con un affetto per nulla scalfito dalla disposizione testamentaria che ha deliberato la chiusura del giornale. Tale preludio è il pretesto per una rievocazione di alcuni reportage memorabili, che sono a loro volta pretestuosi. Dopo una ciclo-introduzione che ricalca Jacques Tati, il primo episodio riguarda un artista folle e violento (Benicio del Toro), intrappolato oltre che in prigione in un’intensa relazione con una donna che funge da musa, modella e guardia carceraria; il secondo concerne l’intreccio di esistenzialistiche (ancor più che esistenziali) divisioni e commistioni generazionali nel pieno del maggio parigino – con Timothée Chamelet e Frances McDormand, ma qui cessiamo l’indicazione del supercast, che è infinito se si contano i cammei – e il terzo una sgangherata gangster-story che ingloba la pratica di alta nouvelle cuisine dentro un commissariato di polizia. Le rievocazioni dei reportage passano dal colore al bianco e nero, dagli attori al fumetto, dal cinegiornale all’impaginato, dall’inglese al francese, e intanto esibiscono una moltitudine di oggetti, luoghi, pose e personaggi riguardanti il giornalismo, Parigi, la cultura europea, il cinema francese, tutti che affiorano come ricordo in un’epoca successiva, e in quanto ricordi emergono già deformati, disegnando un profilo quasi radiografico del cervello nostalgico (incluse certe frizioni spazio-temporali, per cui la parodia della fissa per il cibo è rivisitata dentro la cornice food della contemporaneità) e completando un raffinato affresco visivo su quell’archetipo di elaborazione del lutto.
The French Dispatch
Wesley Wales “Wes” Anderson
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
-
Hai detto male di me
-
Hai violato un confine
-
Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
Scrivi un commento