Recensione del film “The square”

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Non credo di praticare un grave spoiler se anticipo che l’ultima frase pronunciata nel film “The square”, trionfatore a Cannes, è “Mi spiace, non posso esserle d’aiuto”, ed è pronunciata come pura e vuota forma di cortesia al termine di una conversazione che, a dispetto della concretezza di una domanda, si prospetta per tutta le sue sequenze come una cronica impossibilità di intendersi e interagire tra l’interrogante e chi risponde. Non è una frase casuale perché il tema dell’aiutare gli altri è il vero centro di un’opera audace e ambiziosa, con una strana struttura che somiglia a un film a episodi  concatenati,

più per concetto che per trama, essenzialmente ruotanti intorno al protagonista, Christian (Claes Bang), il curatore di un museo di Stoccolma. La storia comincia con l’allestimento di un’installazione intitolata “The square”, consistente in un’unica spoglia opera, un quadrato dai bordi luminosi posto sul pavimento, presentato come un “santuario di fiducia” dentro il quale tutti gli uomini hanno gli stessi diritti e doveri, e immaginando che chiunque si trovi all’interno possa pretendere di vedere esaudita una sua richiesta d’aiuto, che si tratti di ricevere ascolto o denaro. L’idealismo di Christian si spegne, del tutto inconsciamente, nella vita reale, facendo egli parte della massa che transita oltre qualsiasi postulante: ma tre abili truffatori riescono, proprio coinvolgendolo in una situazione in cui prestare aiuto, a sottrargli il portafogli e lo smartphone. Grazie alla localizzazione digitale del dispositivo Christian individua il fabbricato di penosa e marginale periferia nel quale abitano i ladri e, imbeccato da un futile collaboratore, pensa di sparare nel mucchio con una lettera aggressiva a tutti i condomini, sottovalutando le conseguenze psicologiche del gesto sulle persone che nulla hanno a  che vedere con l’episodio. In ogni caso il recupero dei suoi beni lo distoglie dalla campagna di comunicazione della mostra che, in mano a due fanatici dei social, prende una china scriteriata.

 

Il regista Ruben Ostlund mostra di conoscere perfettamente i codici dell’arte contemporanea (come pure quelli della finanza comportamentale) e diversi critici hanno intravisto la chiave del film nella denuncia della sua deriva e delle deferenti convenzioni che impediscono di metterla seriamente in discussione. Il film è tuttavia assai più esteso nel suo bersaglio, e si serve brillantemente della facciata dell’arte sia per creare episodi di comicità esilarante e surreale (ma a pensarci bene neppure tanto surreale: provate a vedere le scene della performance di un artista che si finge belva in mezzo ai commensali di un ricevimento e giudicate se l’atmosfera sia tanto dissimile da certe opere di Marina Abrahmovic), sia per denunciare la sua velleitarietà quanto a impatto sul mondo: pare dire che l’arte è una cosa troppo seria per lasciarla alla vanità degli artisti e dell’entourage che li circonda. Ma più che altro il mondo dell’arte rimane lo sfondo per una riflessione amara sull’ipocrisia della società borghese e dei suoi tabù (compreso il politicamente corretto, non meno bistrattato della perdita di certi minimi valori comunitari). Si può pensare che il tema sia particolarmente urticante in una società come quella svedese, che ha fatto della solidarietà un orgoglioso segno distintivo del proprio essere, però con forti contraddizioni emotive. Ne nasce qui una fustigazione nel segno del paradosso, alla Bunuel, con l’occhio feroce e gelido di Von Trier.

 

Alla purezza estetica del film avrebbe giovato una cura più severa del montaggio. Ma la sceneggiatura è serrata e felicissima, e alcune trovate irresistibili, tra le quali il letterale tira-molla di un preservativo colmo dopo un rapporto sessuale. La macchina da presa predilige i piani fissi e i campi lunghi, ove spesso i personaggi si dissolvono in una mobilità scomposta, frenetica, disattenta e socialmente irrilevante. Le frequenti inquadrature dall’alto o dal basso e la ricorrente presenza di trombe delle scale pongono l’attenzione sulla dissimmetria dei rapporti sociali  e sul correre “verso”. Si potrebbe anche dire che “The square” è metafora dello stare dentro e del chiamarsi fuori. Se una timida speranza verso un futuro differente esiste la ritroviamo nello sguardo delle due bambine di Christian che, quando escono dall’autistica e parentale litigiosità competitiva e contemplano il desolante panorama umano che gli adulti stanno confezionando, non ne sembrano per nulla contente.

 

The square

Ruben Ostlund

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2020-09-11T15:16:27+01:0023 Novembre 2017|Il Nuovo Giudizio Universale|

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