Accade ancora che si possa definire un film nel modo più semplice: una bella storia, aiutata dalle immagini, diversa da tutte le altre storie che abbiamo sentito. Sappiamo che Hitchcok valutava la qualità narrativa di una trama dalla sua attitudine a essere riassunta per iscritto su una scatola di fiammiferi. Un altro apologo sulla riducibilità a sintesi di un racconto, che circola specialmente nel mondo del marketing, è l’elevator pitch: il discorso sull’ascensore che, nel poco tempo di percorso tra i piani, l’imprenditore di una start-up rivolge a un possibile finanziatore. Ebbene, immaginiamo di prendere l’ascensore insieme al regista Martin McDonagh che ci racconta il suo film. Arrivati all’ultimo piano, completamente rapiti, premeremmo il tasto per scendere di nuovo a terra e lo imploreremmo di entrare più nei dettagli. E la storia, brutalmente immediata, si aprirebbe alle sue mille articolazioni. McDonagh potrebbe sviscerarle nel continuo altalenare tra i piani, mentre una coda impaziente si è formata per accedere all’ascensore.
Facciamo allora il primo viaggio. Una donna, cui hanno ucciso la figlia affitta tre enormi manifesti pubblicitari, sulla strada d’ingresso alla città, che con altrettante incisive secche frasi (la prima delle quali è “Stuprata mentre moriva”) rimproverano aspramente lo sceriffo e la polizia per la loro inettitudine nella ricerca del colpevole. Lo sceriffo però è una gran brava persona, ammalato terminale di tumore e nel cuore della popolazione, e la sete di giustizia, o più esattamente di vendetta della donna, incontra l’ostacolo di una comunità egoista, arretrata e perbenista; ma pure l’inattesa solidarietà di quello sceriffo che si è scelta per nemico e, con il progredire del film, di un poliziotto razzista, mammone, violento e psicolabile che aveva scelto come nemico lei. Tac apertura di porte. Bottone premuto, l’ascensore scende. Poi risale. Usciremo storditi da quei dettagli che messi insieme sigilleranno una trama perfetta. Gli incendi. I pestaggi (attenzione: due incendi e due pestaggi che non hanno nulla in comune con quelli che avete già visto altrove, presentando tutti almeno una piega imprevedibile). Il senso di colpa della madre per il conflitto che esisteva con la figlia e che aveva indirettamente contribuito alla tragedia. La redenzione del violento. La malattia e la grande umanità dello sceriffo, peccato fosse così incapace come sceriffo. Il nano corteggiatore. Il figlio adolescente, già tanto maturo nella sua mediazione rispetto all’odio implacabile che la madre riversa sul mondo. Il personaggio apparentemente più stupido del film che se ne esce con la frase più saggia, talmente saggia da stravincere sulla sua doppia natura di insulso luogo comune e da influenzare il corso dell’azione. Il viaggio finale e congiunto di due esseri che sono ancora indecisi tra il sangue e la pietà, ma intanto stanno già reciprocamente rammendando le loro anime.
Tre manifesti a Ebbing, Missuori ha tutti i numeri per assurgere a dissertazione: sul sud dell’America, sul modo più efficace di veicolare un messaggio, sulla catena della violenza, sulla vile volontà di girare la testa quando il male è troppo vicino. Ma McDonagh sceglie di non perorare alcuna causa, mostrando soltanto le cose per come vanno, secondo i capricci del fato: la meditazione, analoga a quella che segue un dramma scespiriano, affiora solo quando si è spenta la luce dello schermo. Il premio per la sceneggiatura ricevuto a Venezia è tributo modesto a fronte della grandezza del film, meglio apprezzato con i quattro Golden Globe e probabile futuro vincitore di qualche Oscar. Primeggia certo l’interpretazione di Frances McDormand, la quale restituisce della donna che interpreta l’esplosivo ma pur coerente miscuglio di onestà, coraggio, tenacia, intelligenza e stronzaggine: ma non le è da meno Sam Rockwell, nella parte del poliziotto Dixon, e ancora più rimarchevole è la resa complessiva, la bravura dei singoli caratteristi. D’altronde è impressionante come il regista sia capace di scolpire, anche con una sola scena e due dialoghi, personalità definite.
Inquadrare quest’opera in un genere è difficile e d’altronde non obbligatorio: di sicuro le sta stretta la definizione di black-commedy e anche la parentela con i fratelli Coen, che viene tirata fuori per ogni pellicola con tinte forti, dure e umorismo macabro. Nei Coen la violenza è pura manifestazione dell’assurdo e di rado apre alla redenzione. In Tre manifesti (l’abbreviazione, oltre che comoda, è un modo di trattare il film quale amico o familiare) la violenza ha una sua ragione, non sempre distorta, ma può essere interrotta dalla speranza del cambiamento e dalla scoperta di quel che di buono c’è in noi e nel prossimo. McDonagh ha coniato un impasto tutto personale del tragico e del comico, di realismo e di eccesso, della fusion di generi, che non a torto qualcuno ha fatto scorrere dalla tragedia greca al western ( felicemente spiazzante che Frances McDormand abbia studiato e applicato per l’eroina che incarna la postura di John Wayne).
McDonagh al suo terzo film, è passato brillantemente dall’eccellenza teatrale al cinema. Che sia anche bravo a girare ci verrà in mente ripercorrendo in mente qualche splendida sequenza. Durante il film siamo troppo assorbiti dall’emozione e dalla trama per pensare ad altro.
Tre cartelloni a Ebbing, Missuori
Martin McDonagh
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
Scrivi un commento