Mi piace pensare che la ragione per la quale non è stato assegnato l’Oscar per il miglior documentario a Visages Villages sia che i giudici abbiano considerato riduttivo qualificarlo come documentario. Questo piccolo miracolo cinematografico, pur nella sua sciolta immediatezza, ha una complessità ideologica che lo colloca a metà tra un’inedita forma di road movie e uno stretto punto di contatto tra l’arte contemporanea e il cinema. A dargli vita è una coppia solo apparentemente improbabile, composta dalla quasi novantenne regista Agnes Varda (che l’Oscar nel 2017 lo ha almeno preso alla carriera, la prima volta di una donna) e l’artista graffitaro (ma non solo: lui si definisce artivisto urbano) JR, spinti l’una verso l’altra da un’irresistibile affinità elettiva.
I due decidono di mettersi in viaggio per la Francia alla ricerca di piccoli paesi e volti sconosciuti, senza una meta precisa, lasciandosi catturare dall’istinto e dal richiamo improvviso di situazioni che dietro la loro ordinarietà nascondono qualcosa di intenso e struggente per via della malinconia, della tenacia, della resilienza, del sentimento del dovere o della gioia di vivere che traboccano da esistenze tranquille. E la forma che fa traboccare questo potente volume è l’espressione artistica di JR che, dopo averle informalmente intervistate insieme alla Varda, conduce le persone nel suo bizzarro camioncino a forma di polaroid, le fotografa in posa da istantanea e ne stampa magicamente gigantografie che poi, montate le impalcature con la sua troupe, provvederà a incollare su un muro, spesso fatiscente: in una promessa d’immortalità che tutti sanno effimera e destinata alla precoce cancellazione ad opera degli agenti atmosferici, senza che questo tolga niente della sua laica sacralità alla celebrazione.
Potrebbe sembrare, raccontato in questo suo nucleo, un film concettuale alimentato da un’idea graziosa, di quelle che dopo una ventina di minuti già sfiancano lo spettatore. Al contrario, oltre al fatto che la rappresentazione di questi personaggi umili e quasi presepiali (operai, agricoltori, i portuali e le loro mogli, la superstite di un ex villaggio minerario, agricoltori che si dividono sulla decisione di tagliare le corna alle capre…) ha un tocco narrativo minimalista ma molto lirico, l’interazione tra gli ideali nonna/nipote che sono Varda e JR è scoppiettante e si affaccia (specialmente per la Varda) su memorie personali significative mentre documenta le loro discussioni in diretta sul progetto. Davvero le documenta o è tutto costruito? Varda e JR fanno se stessi e non recitano e però nella vita sono deliziosi io recitanti con relativo costume: per lui gli occhiali scuri che non sfila mai e per lei la vezzosa acconciatura a caschetto bicolore che simula un cappellino di bella foggia.
Il film è una sorta di performance, per come mette in gioco gli autori nel momento della realizzazione artistica, per come è metalinguistico (il documentario che stanno girando è l’oggetto del documentario) e per come il video è destinato a restare unica traccia delle gigantografie di cui filma la nascita (un po’ come, fra i maestri dell’arte contemporanea, avviene per gli impacchettamenti di Christo e le passeggiate land art di Richard Long): non è strano che ci arrivi una regista come la Varda, che praticò l’estetica d’avanguardia della nouvelle vague e negli ultimi tempi aveva giusto esplorato la tensione tra cinema e video arte. Semmai, quel che stupisce chi si imbatte ogni giorno in legioni d’imbecilli è il lampo d’intelligenza che attraversa ciascuno dei semplici personaggi, che sanno distillare antica saggezza in una frase breve e lasciare affiorare, davvero anche solo con il volto, una storia che si è impossessata del loro destino. Si comprende allora che spesso è imbecille il nostro sguardo e il nostro ascolto, e che una delle massime funzioni dell’arte rimane far emergere l’intelligenza che si nasconde e testimoniarla, per poi lasciare a riposare lo sguardo operoso dell’artista, magari in contemplazione pacificata dell’orizzonte sopra il mare, come fanno Agnes Varda e JR. Tutti i personaggi del film, a loro volta, si sono dignitosamente ritagliati nella vita un cantuccio di testimoni che percorrono contromano, resistendo alla velocità di un’epoca che vanamente cerca di lasciarseli alle spalle. Invece Agnes Varda, alla fine dell’opera, si lascia alle spalle Godard, suo vecchio compagno di strada, convitato di pietra variamente evocato nel film (occhio tra l’altro alla citazione di Bande à part, con Agnes in carrozzella che sfreccia nel Louvre) e che alla fine lascia (letteralmente) la porta sbarrata al tentativo di coinvolgerlo. Peggio per lui, giacché la Varda dimostra quale peccato per un artista sia chiudersi alla ricchezza espressiva del mondo: persino quando una malattia rende sfuocata la vista – così sta accadendo alla Varda – la macchina da presa mette a fuoco i corpi e le anime con lo stesso nitore della giovinezza.
Visages, villages
Agnès Varda e JR
Votazione finale
I giudizi
Perfetto
Alla grande
Merita
Niente male
Né infamia né lode
Anche no
Da dimenticare
Terrificante
Si salvi chi può
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