Seconda Puntata
Gambais non era quel nido d’amore che Landru prometteva alle corteggiate. Non era neppure un tugurio, in verità: c’erano due piani, cinque camere e un piccolo giardino con qualche albero da frutta,
ma certo il tutto era parecchio abbandonato a sé stesso, con la tappezzeria sporca e scrostata dalle pareti, la sala da pranzo senza mobili salvo una vecchia credenza rococò, sulla quale erano posati quattro piatti sporchi. La grande perquisizione si svolse con un disordine che oggi farebbe inorridire il Ris di Parma, fu una cosa a metà tra la movida a Barcellona e la liturgia ortodossa della messa. Ognuno entrava a piacimento nelle stanze e prendeva in mano quello che gli capitava. Dall’autorimessa sbucò la fibbia di un reggiseno, poi una parrucca, quindi una dentiera: tranne una, le amanti di Landru non erano fanciulle in fiore. Ma i corpi, i cadaveri? La polizia aveva già provato, senza successo, a cercarli nello stagno. Si era inutilmente rivolta all’obitorio, immaginando che fossero state abbandonate morte per strada e mai identificate. A Gambais, l’attenzione si spostò sul giardino. Scavando, si trovarono i resti di due cagnolini (la prima donna scomparsa, in effetti, aveva con sé i cagnolini, oltre a un figlio, dissolto anche lui nel nulla). Ma anche dei mucchi di cenere. La perquisizione proseguì nei giorni a venire e assurse a protagonista una stufetta posta nel salone, utile a scaldare l’ambiente o a fungere da cucina economica. Tra l’interno della stufa e il giardino la finale dotazione cinerina fu di cento chili, una quantità obiettivamente inusuale per il ménage domestico. Venne allora avanzata l’ipotesi che Landru avesse bruciato là dentro le malcapitate, dopo averle uccise in qualche altro modo, probabilmente strangolate. Il perito sperimentò la cremazione di un cosciotto di agnello in un’ora e dieci, e affermò che con una certa costanza Landru poteva avere incenerito i corpi delle vittime. Viene in mente il principe di Salina e la sua affermazione che l’amore è fuoco per un giorno e cenere per cento anni. Quasi suscita domestica tenerezza l’immagine dell’uomo scrupolosamente intento a sezionare e arrostire i corpi delle sue donne, come un vedovo nostalgico perso davanti al camino fiammeggiante nel brillare vivido della memoria dell’amata.
Rimaneva sorprendente la totale assenza di macchie di sangue. Dai resti di cenere e ossa i periti ritennero di risalire all’esistenza di almeno tre corpi distinti, dei quali erano faticosamente ricostruibili rotule, piedi, denti o falangi. Non seppero però affermare con certezza che i corpi fossero femminili piuttosto che maschili. La posizione della villa poteva indurre qualche dubbio ulteriore. Il cimitero locale era a pochi metri, e durante la guerra avevano stazionato nei paraggi truppe di soldati che potevano avere libero accesso alla villa nei giorni feriali (Landru e le donne vivevano lì durante i weekend), cucinare, seppellire resti e avanzi. Dopo la conclusione del processo, un testimone riferì di avere visto, tra la prima e la seconda perquisizione, introdursi nella villa il figlio demente di un vicino con un sacco. Ma intanto il giovane era morto e non era possibile interrogarlo al riguardo.
Gli elementi a carico di Landru erano veramente tanti ma non andarono al di là di un pur fortissimo paradigma indiziario. La fidanzata con cui era stato sorpreso nell’appartamento parigino depose a suo favore, tracciandone un profilo non privo di una certa nobiltà d’animo. Landru, con lei, aveva forse intenzioni serie e, fatto assolutamente inedito, la manteneva. La sua ultima compagna di Gambais pare fosse stata la più chiassosa e vistosa, celebrando il suo ingresso nella villa con risate cameratesche, vestiario sgargiante e un boa al collo. Magari, col tempo, anche Landru si era stufato di quell’andirivieni.
La Segret colse l’occasione dell’inattesa celebrità e, quando si capì che la vicenda giudiziaria volgeva al peggio per l’ex amante, fece pubblicare un piccante memoriale dal titolo Ho vissuto con Landru, quindi si avviò a una carriera da soubrette. Insoddisfatta del modo in cui Claude Chabrol la ritrasse nel 1963, nel film intitolato all’assassino, querelò il regista.
Ma non fu solo né principalmente la Segret a cogliere il sostrato spettacolare del processo. Centinaia di persone che mai avevano rilevato stranezze in merito a quanto accadeva attorno alla villa resuscitarono ricordi portentosi e reclamarono il ruolo di testi d’accusa. Volevano partecipare, apparire, essere visti, intervistati. Il processo Landru segnò in qualche modo la nascita della televisione. L’affermazione può apparire sorprendente, visto che le prime programmazioni sarebbero cominciate vent’anni dopo, e va dunque precisata nel senso che un pubblico anonimo, ansioso di ergersi a protagonista, si comportò come se già esistesse la televisione, reclamando il suo quarto d’ora di popolarità e assumendo verbi e gestualità che sottintendevano l’occhio catturante della telecamera. Non è insomma del tutto vero che siano certi media a influenzare, dal momento in cui operano, le condotte individuali. Le tecnologie si indirizzano nella direzione che certe esigenze hanno già tracciato per loro. Il senso della disgregazione comunitaria, la reazione alla solitudine nella forma dell’esibizionismo narcisistico, il terrore dell’anonimato erano impulsi già presenti negli anni Venti e i nuovi media nascevano anche per metterli in ordine e valorizzarli. La stessa radio dei primi anni era molto diversa da come l’abbiamo conosciuta dopo e aspirava a essere, nel modo di comunicare, una televisione alla quale per accidente fosse stato amputato lo schermo. I pendolari francesi che riempivano la prima classe dei treni, ognuna delle mattine del processo, erano febbrilmente attraversati da eccitazione più che da orrore, anche perché l’assenza di cadaveri diffondeva un senso di fiction, rendeva la tragedia impalpabile e la morte vagamente virtuale, proprio come tanto più in là avrebbero fatto le trasmissioni televisive.
Landru, in questa spettacolarizzazione del processo, fu interprete esemplare nel suo ruolo di primattore. Si presentava alle udienze in un vestito di panna color verde reseda, il volto incorniciato nella mitica e curatissima barba, inchinandosi puntualmente nell’entrare e uscire, portando sempre un enorme incartamento che riempiva di note e appunti durante le deposizioni di testi e periti. Non mostrava mai alcun cedimento, ammiccava al pubblico e alla giuria, si produceva in motti arguti che il suo imbarazzato avvocato, timoroso che non giovassero al buon esito della causa, rubricò pubblicamente come “mediocri facezie”. Con la sicumera dell’intrattenitore e l’istrionismo della star sapeva come carpire la risata al pubblico. Il presidente minaccia alcuni rumorosi spettatori di rimandarli a casa e Landru, lesto, chiosa che per quanto lo riguarda, lui accetterebbe volentieri. Il pubblico ministero, immaginando di provocarne il crollo psicologico, gli mostra un reperto della casa degli orrori: “E questo, Landru, cosa ne dite di questo?”. L’interpellato si infila seraficamente il pince-nez, guarda con attenzione la mano del giudice e ciò che essa contiene per poi alzare lo sguardo e rispondere con la bocca atteggiata a disgusto: “Penso, giudice, che codesti denti sono davvero in stato pietoso”. All’ennesimo, insistente: “Cosa ne avete fatto di quelle donne?”, sbotta che è compito della polizia cercarle, e che visto che c’hanno messo cinque anni per trovare lui non lo sorprende che dopo tre o quattro brancolino ancora nel buio alla ricerca di quelle altre. In non pochi suscita ammirazione, quando non vera simpatia. Riceve da mani femminili doni e proposte di matrimonio. Alle elezioni politiche, nel collegio in cui si candida il giudice istruttore del processo, quattromila schede vengono riempite col nome di Landru.
Il brano è tratto dal libro di Remo Bassetti “La storia in dieci processi“, da Socrate a Berluscconi
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