Prima puntata
Autore: “Nell’occuparmi di alcuni processi, vorrei provare a conoscere quale fu la loro verità storica. E anche se rispondessero o meno a giustizia le condanne che furono inflitte”.
Socrate: “Molto bene. Mi piacerebbe, allora, dato che tu parli di conoscere, sentirti specificare cosa esattamente intendi per conoscenza, e anche che tu mi faccia ben comprendere cosa è la verità, siccome affermi di cercarla. E vorrei chiederti anche se tu mi possa indicare cosa sia giusto”.
Se l’autore di questo libro fosse vissuto nel quinto secolo a.C. e avesse deciso di confrontarsi con Socrate sulla bontà della sua idea editoriale, probabilmente sarebbe stato accolto così (e magari, scoraggiato, avrebbe dimesso l’idea: giudicherà il lettore se ciò sarebbe stato di giovamento allo stato generale delle Lettere).
Normalmente per essere messi dialetticamente alle corde da Socrate non c’era bisogno di recarsi a domicilio. Era lui stesso che, scalzo e scarmigliato, fermava per strada le persone più in vista della città e, alla frequente presenza di un uditorio giovanile, le interrogava su qualcosa, smontava pezzo per pezzo la loro risposta dimostrandone l’insufficienza logica, per poi risalire alla complessiva insipienza dell’interpellato e del suo argomentare.
Oggi che le persone sono impegnate per buona parte del giorno in ufficio o in fabbrica, simile occupazione non potrebbe che svolgersi sul luogo di lavoro, e in qualche contesto verrebbe aperto un fascicolo per mobbing. Ma già in quel tempo suscitò a colui che la praticava le antipatie dei contemporanei. Socrate vi ci si dedicò anima e corpo trascurando ogni altra faccenda, mantenendosi con una rendita assottigliatasi negli anni. Nel 399 a.C., Atene lo sottopose a processo e lo condannò a morte. Una sentenza tramandata come scandalo e mistero, in quanto inflitta nella culla, anche politica, della civiltà a un uomo che proclamava i valori della virtù e della giustizia.
Le fonti di prima mano di cui disponiamo su Socrate e che comprendono anche il processo, sono i suoi allievi Senofonte e Platone. La figura da loro tratteggiata, pur con alcune convergenze, non esprime la stessa personalità. Senofonte, nel proposito apologetico di stornare di fronte ai posteri ogni cattivo pensiero nei confronti del suo maestro, lo svilisce a pedante dispensatore di buon senso e salutista cultore del giusto mezzo. Cancellandone i tratti spigolosi ed eversivi (forse invisibili al suo occhio intellettualmente spento e a una mentalità da militare in pensione) e facendone un innocuo bonaccione, Senofonte rende incomprensibile la ragione per la quale, per dirla con Kierkegaard, gli ateniesi siano stati colti dalla mattana di ammazzare un borghesuccio così a modo.
Sull’attendibilità di Platone il problema è diverso. Platone, scrittore tra i più grandi della storia, inventò il genere del dialogo per sviluppare le sue tesi filosofiche e si servì a lungo della maschera di Socrate quale personaggio protagonista. La struttura dei suoi dialoghi costituisce l’origine del romanzo giallo: la vittima è un concetto, così come lo vede il senso comune, e l’intreccio si sviluppa indagando sull’assassino, una definizione universale utile a porre quello stesso concetto in una luce nuova e ad accomunarlo a una serie di casi analoghi. Socrate fu per Platone ciò che Maigret è stato per Simenon. Non è facile dunque capire dove cominci la storicità del personaggio e dove finisca l’invenzione letteraria. Tanto più che nei dialoghi, mentre tratta monograficamente un tema morale, Platone inserisce l’episodio all’interno della biografia di Socrate, sempre ruotante attorno alla condanna o alle circostanze che la determinarono, il tutto secondo una cronologia che non di rado, alla maniera dei cicli di Spielberg, mette in scena prima gli eventi finali e poi gli antecedenti. Così gli studiosi si sono divisi e se, tendenzialmente, hanno ripartito i dialoghi tra giovanili e successivi, ritenendo che Platone sia la voce di Socrate nei primi ed elabori di suo nei secondi, sono rimasti discordi sulla linea di separazione tra le due epoche. Sembra in ogni caso di poter concludere che un testo sia particolarmente fedele ai detti e alle azioni del maestro: l’Apologia di Socrate, che racconta proprio il processo. Questo dialogo, non a caso, è l’unico intitolato al protagonista, l’unico nel quale l’aspetto cronachistico prende decisamente il sopravvento sull’articolazione di una teoria morale, l’unico in cui Platone si cita come presente. Esso venne scritto poco dopo il processo e una descrizione alterata dei fatti avrebbe screditato l’autore, e lo avrebbe forse esposto a una condanna.
Il racconto del processo è prodigo di dettagli essenziali per la conoscenza complessiva del personaggio e della sua vita. Il quadro che ne esce viene rafforzato da una terza fonte: quella del commediografo Aristofane che, nella sua opera Le nuvole, del 423 a.C., prende Socrate come concentrato di tutti i difetti che parte degli ateniesi attribuiva ai filosofi, anche i più lontani tra loro, e lo presenta come uno sfaccendato insensibile alle tradizionali regole della morale e dell’igiene, cinico, nichilista, spregiudicato e invasato. Se lo si alleggerisce della zavorra caricaturale, necessaria alla finzione teatrale, il nocciolo delle accuse ricalca quello che riecheggerà ventiquattro anni dopo al processo. Infatti Socrate comincerà la sua arringa proprio lamentando che le maldicenze lo inseguono da lungo tempo e ricordando come siano state messe in fila da un commediografo (Aristofane appunto).
L’arringa di difensivo ebbe assai poco, e anche a distanza di oltre due millenni se ne coglie perfettamente il tono altero e provocatorio. Essa occupa l’intero libro di Platone (salvo una breve e insipida presenza di uno degli accusatori) ma è talmente ben scritta che è inutile sentire la voce della controparte, della quale perfettamente dà conto il protagonista. Padrone magistrale della forma-dialogo, Platone era capace di conservarne i contenuti anche amputando una delle due voci, caricando l’altra dell’onere di rendere esplicito o implicito quanto veniva omesso (duemilaquattrocento anni dopo, lo scrittore israeliano Yehoshua avrebbe fatto lo stesso nel romanzo Il signor Mani).
Estratto (da “La storia in dieci processi“)
Socrate, Gesù, Giovanna d’Arco, Galileo, Dreyfus, Landru, Sacco e Vanzetti, Norimberga, i coniugi Rosenberg, Berlusconi: dei grandi eventi nei tribunali rimangono spesso nella memoria collettiva solo i verdetti e una radicale semplificazione delle ragioni che li determinarono. Invece, partendo dal racconto sintetico riguardanti questi dieci processi, il libro cerca di ricostruire cosa, di volta in volta, fosse veramente in gioco. E di mostrare come il processo, simbolo estremo della tensione tra la libertà degli individui e i loro vincoli verso la comunità, si riveli puntualmente in grado di illuminare un’intera epoca.
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