Seconda puntata
Gli accusatori sono tre, Meleto, Anito e Licone, ognuno in rappresentanza di una classe sociale, rispettivamente i poeti, i politici e i retori. Nel processo penale greco non era prevista la figura del pubblico ministero, dunque l’accusa doveva essere presentata e sorretta da privati cittadini. La sentenza competeva a un tribunale popolare, composto da 501 membri estratti a sorte, e al magistrato, l’arconte basileo, spettavano solo funzioni di sorveglianza e organizzazione.
Le due imputazioni suonavano piuttosto astratte e consistevano nel non riconoscere gli dei che la città venerava, introducendo anche altre divinità, e nel corrompere i giovani. Socrate le riconduce alle antipatie che si è attirato con le sue inchieste per strada e spiega da dove queste ultime abbiano preso origine. Una volta il suo discepolo Cherofonte interpellò al tempio di Apollo l’oracolo di Delfi, ricevendo l’informazione che nessuno era più sapiente di Socrate. Sorpreso egli stesso da tale impegnativa investitura, Socrate decise di verificare il responso del dio e cominciò a sondare la conoscenza di politici, artigiani e poeti ricavandone esiti sconfortanti. I politici non erano sapienti come apparivano, i poeti non erano capaci nemmeno di commentare le opere che avevano composto, gli artigiani ricavavano dalla loro perizia nel mestiere la presunzione di poter dire la loro anche in campi in cui erano a digiuno di cognizioni. Ne ricavò che, pur essendo ignorante quanto loro, egli era pur sempre più sapiente in quanto sapeva di non sapere. E vero che le sue inchieste si svolgevano davanti ai giovani, che si divertivano e talvolta cercavano di imitarlo. Ma, spiega Socrate, la sua intenzione era quella di compiacere il dio, che lo aveva evidentemente individuato per questa missione: diffondere la consapevolezza che occorre prestare le proprie cure alla conoscenza e, attraverso questa, al perfezionamento dell’anima (o, sotto un altro profilo, curare la conoscenza di sé e, attraverso ciò, il perfezionamento della conoscenza in generale), poiché è dalla virtù che nascono le ricchezze e non il contrario.
Socrate riconosce che sussiste un’apparente discrasia tra la sua prodigalità nel dispensare consigli privati e la sua renitenza a intervenire negli affari pubblici e precisa che c’è in lui qualcosa di demonico, di divino, una voce che da sempre sente dentro di sé e gli segnala quando deve astenersi dal fare qualcosa. Essa lo ha sempre esortato a non impegnarsi in politica poiché “non c’è uomo che possa salvarsi qualora si opponga francamente a voi o a qualsiasi altra massa popolare e cerchi di impedire che si verifichino nella città tante ingiustizie e illegalità. E bensì necessario che chi intende veramente lottare per la giustizia, se vuole sopravvivere anche solo per poco, viva come uomo privato e non pubblico”. Socrate tiene a puntualizzare che si tratta di un modo per salvaguardare meglio certi valori e non di codardia e a dimostrazione di ciò cita due circostanze nelle quali, trovatosi per cause indipendenti dalla sua volontà a disporre di un potere pubblico o a rispondere a esso, non ha esitato a fare la scelta più rischiosa, in nome della giustizia.
La prima, nel 406, quando venne a far parte della giuria popolare chiamata a pronunciarsi sulla condanna di alcuni generali. Costoro avevano vinto la battaglia navale delle Arginuse ma non avevano soccorso i propri naufraghi. Gli ateniesi intendevano giudicarli in blocco, violando il principio della responsabilità penale personale. Si può dire, per usare una terminologia corrente, che si trattasse di un maxiprocesso. Socrate, sfidando l’impopolarità, lottò, strenuamente ma anche vanamente, per far sì che ciascuno degli imputati venisse assolto o condannato solo in funzione delle proprie azioni.
La seconda fu nel 404, sotto la tirannide dei Trenta, che per otto mesi rovesciò la democrazia. I tiranni ordinavano ai comuni cittadini di prelevare persone sgradite e condurle a loro perché venissero messe a morte. Ricevuto un incarico di questo tipo assieme ad altri quattro, a proposito di un certo Leone di Salamina, Socrate non indugiò a disubbidirvi e se ne tornò a casa mentre gli altri andavano a prendere Leone. Facendo riferimento a un episodio di opposizione agli oligarchi, egli chiariva che il suo anticonformismo non aveva coloriture politiche.
Al termine del suo primo discorso, Socrate proclamò che non aveva nessuna intenzione di provare a impietosire i giurati. E quelli non si impietosirono, condannandolo con la prevalenza di 281 voti contro 220, lasciando però a Socrate il compito di proporre la pena, prima di tornare a riunirsi per deliberarla loro.
Socrate, dopo aver detto che non si aspettava una maggioranza tanto risicata a suo sfavore, suggerì provocatoriamente di meritare piuttosto un premio e lo individuò nel pensionamento al Pritaneo, il luogo dove i vincitori dell’Olimpiade e altri cittadini esimi consumavano i pasti a spese dello Stato. In alternativa, quale pena pecuniaria, suggerì la cifra simbolica di una mina e, in seconda battuta, quella di trenta mine, che i discepoli presenti, fra cui Platone, si dichiaravano pronti a versare per lui.
I giudici, indispettiti, votarono per la condanna a morte, con una maggioranza salita a 360 voti. Nel discorso conclusivo, Socrate ribadì la dignità della sua condotta processuale, affermò che la morte non poteva essere un gran male, sia che consistesse nel sonno eterno sia che aprisse al dialogo con le grandi personalità del passato incontrate nell’Ade, e invitò gli ateniesi a dare ai propri figli lo stesso fastidio che lui aveva arrecato ai cittadini, nel caso che essi mostrassero di interessarsi più alla coltivazione delle ricchezze che delle virtù. Socrate venne condotto in carcere e ivi rimase a lungo, dato che il giorno prima del processo era partita la nave per l’isola di Apollo, come annualmente accadeva per celebrare Teseo, che aveva liberato la città dal sacrificio di figli maschi al Minotauro, e la legge decretava che fino al suo ritorno fosse impuro uccidere chiunque. Per via del mare agitato, la nave procrastinò il suo rientro per un mese. Fu solo allora che a Socrate venne porta la cicuta. Ed egli, serenamente, la trangugiò.
Estratto (da “La storia in dieci processi“)
Socrate, Gesù, Giovanna d’Arco, Galileo, Dreyfus, Landru, Sacco e Vanzetti, Norimberga, i coniugi Rosenberg, Berlusconi: dei grandi eventi nei tribunali rimangono spesso nella memoria collettiva solo i verdetti e una radicale semplificazione delle ragioni che li determinarono. Invece, partendo dal racconto sintetico riguardanti questi dieci processi, il libro cerca di ricostruire cosa, di volta in volta, fosse veramente in gioco. E di mostrare come il processo, simbolo estremo della tensione tra la libertà degli individui e i loro vincoli verso la comunità, si riveli puntualmente in grado di illuminare un’intera epoca.
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