Terza puntata
La vicenda di Socrate non si può comprendere se non all’interno della particolare situazione politica che attanagliava Atene in quegli anni. La democrazia era stata rovesciata due volte, nel 411 e nel 404, in due stagioni brevi ma assai sanguinose.Al termine della dittatura filospartana dei Trenta, nel 404, il governo aveva concesso un’amnistia pacificatrice ma nel 401 aveva dovuto nuovamente reprimere una cospirazione da parte di alcuni aristocratici, già forzosamente trasferiti a Eleusi.Fiaccata dalla soccombente guerra con Sparta e dalle violazioni dell’ordine costituito, la democrazia aveva il nervo scoperto, e si sentiva particolarmente indifesa di fronte a nuove generazioni che ne discutevano le fondamenta. Gli ateniesi ritennero, e dal loro punto di vista non avevano torto, che una pedagogia come quella socratica, fondata sulla confutazione dell’autorità e sulla ridicolizzazione dialettica di coloro che la rappresentavano, inculcasse nei giovani il germe della negazione critica e dell’insubordinazione. È certo che per molti giovani il carisma di Socrate offuscasse anche la venerazione genitoriale. Pare che Anito, l’accusatore più importante, nutrisse diretta avversione per il filosofo a cagione della suggestione che questi esercitava su suo figlio. La moderna nozione di democrazia non calza perfettamente con quella greca: una cosa era la collegialità (più o meno ristretta, a seconda dell’estensione della cittadinanza) della decisione, un’altra l’armonizzazione con la libertà individuale che, anche nel pensiero di Pericle, diventava inevitabile antitesi. Era dunque ben lontana la conciliazione di quell’aporia che le democrazie nella nostra epoca avrebbero dovuto fronteggiare: fino a che punto deve essere tutelato, in nome della democrazia, colui che parla e opera contro la democrazia?
Probabilmente è vero che la maieutica socratica produsse, sul piano della formazione di personalità, frutti avvelenati per Atene: i due più feroci nemici della democrazia, Alcibiade e Crizia, furono in definitiva allievi di Socrate, e fu questo dettaglio concreto, più di ogni altro, a disporre negativamente la città nei confronti di Socrate. Ma si può anche dire che Socrate stesso fosse un reazionario antidemocratico?
Secondo Popper, non fu un caso se Socrate si trovò a difendere nel suo processo il valore della libertà personale. Egli fu un democratico umanitario e Platone compì la scorrettezza di mettergli in bocca le sue teorie totalitarie.
In realtà alcuni postulati della filosofia socratica non conducono esattamente al favore per la democrazia. E anche difficile dargli torto, e non constatarne l’assoluta attualità, quando tuona contro la nefasta influenza dei retori o la presunzione di occuparsi della politica per il solo fatto di esercitare validamente altri mestieri o la superficialità delle opinioni pubbliche. La critica del relativismo e del giudizio comune rappresentano obiettivamente stilettate al principio di maggioranza. Ed è difficile immaginare che chi viene qualificato ignorante possa efficacemente dedicarsi agli affari pubblici. Ma Socrate era soltanto un distruttore: è verosimile che la parte costruttiva, articolatamente conservatrice e tecnocratica, del modello politico, sia tutta farina del sacco di Platone. In generale, Platone ha provato a mettere un punto alle questioni che Socrate aveva aperto e lasciate aperte: nei dialoghi in cui ci si affanna alla ricerca di una definizione universale delle cose (secondo Aristotele il lascito più significativo di Socrate alla posterità) e che si concludono senza averla raggiunta, meglio degli altri si esprime l’anima socratica.
Seguendo Socrate si entrava in un vicolo cieco: la questione dell’ignoranza non riguardava alcuni ma praticamente tutto il mondo; per superare l’ignoranza e acquisire la conoscenza occorre apprendere la virtù; la virtù non si insegna, e quindi in linea di massima non si acquisisce; ammesso che ci sia qualcuno che sappia più degli altri, nel senso che sa di non sapere, è meglio che non s’impicci nelle faccende di governo. Un guazzabuglio, un vicolo cieco dal quale lo stesso Socrate non aveva interesse a venir fuori essendo il destino che si era scelto quello di smantellare credenze meccaniche e ottuse, operazione necessariamente prodromica all’apertura verso un progresso del pensiero. Sarebbe quindi inesatto farne un teorico di forme alternative di governo. Del resto, pur lasciando intendere le sue preferenze per Sparta, si guardò bene dall’andarci a vivere, anche perché alla prima domanda-trabocchetto rivolta a un notabile, lo avrebbero servito subito di barba e capelli, senza farlo scorrazzare per una trentina d’anni come fecero gli ateniesi. A Sparta mancavano il teatro e i poeti, ma anche i filosofi. Si vuole che la sua simpatia laconizzante derivasse dall’esclusione della classe media dai diritti di cittadinanza, ma si dimentica troppo facilmente che quella era pur sempre la classe cui lui apparteneva.
Dal punto di vista politico, insomma, egli assunse l’ingrato compito del grillo parlante. E riuscì a far emergere le contraddizioni e le debolezze della regola maggioritaria anche dalla deliberazione che lo condannava, visto che ottanta imbecilli votarono per la condanna a morte dopo avere votato per l’assoluzione, lasciandosi trascinare dalla stizza per la sua sfrontatezza nell’animosa meschinità propria delle beghe condominiali.
Quell’incongruo sovrappiù, tuttavia, è lo specchio fedele di un certo isterico dispetto che suscitava, all’epoca del processo, la figura di Socrate. C’è troppo divario tra la sorte dei cospiratori del 404, ai quali per effetto dell’amnistia Atene lasciò persino i beni che costoro avevano espropriato ai nemici politici esiliati, e la morte del filosofo. E nemmeno è vero che appena consumato il misfatto la popolazione cadde nella più cupa costernazione e mise a morte gli accusatori. Anito, dopo dieci anni, era ancora una figura di rilievo pubblico. Al di fuori dell’accademia platonica, a lungo, Socrate non fu né pianto né rimpianto. Con la condotta processuale Socrate ci aveva messo del suo: se avesse proposto di essere mandato in esilio sarebbe stato accontentato con sollievo. Eppure quella condanna parve liberare spinte pulsionali faticosamente represse. Lo stesso spostamento di ottanta voti mostra come anche chi non poteva censurarne giuridicamente l’operato non riuscisse durevolmente a celare il desiderio di vederlo cadavere.
Estratto (da “La storia in dieci processi“)
Socrate, Gesù, Giovanna d’Arco, Galileo, Dreyfus, Landru, Sacco e Vanzetti, Norimberga, i coniugi Rosenberg, Berlusconi: dei grandi eventi nei tribunali rimangono spesso nella memoria collettiva solo i verdetti e una radicale semplificazione delle ragioni che li determinarono. Invece, partendo dal racconto sintetico riguardanti questi dieci processi, il libro cerca di ricostruire cosa, di volta in volta, fosse veramente in gioco. E di mostrare come il processo, simbolo estremo della tensione tra la libertà degli individui e i loro vincoli verso la comunità, si riveli puntualmente in grado di illuminare un’intera epoca.
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