Per entrare nella biografia socratica è assai utile, più di quanto non appaia, un altro dialogo platonico, l’Eutifrone. La storia è ambientata nell’imminenza del processo a Socrate: aspettando di entrare al cospetto dei giudici, egli incontra tale Eutifrone, a sua volta in attesa che cominci un giudizio. Imputato è il padre di Eutifrone, colpevole di aver lasciato morire di fame e freddo un suo servo, gettandolo legato in una fossa, dopo avere scoperto che, ubriacatosi, aveva ammazzato un altro servo. E lo stesso Eutifrone che ha provveduto a denunciare il padre.
Il triangolo delittuoso presta il fianco a una serie infinita di dilemmi etici, che a onor del vero nel dialogo vengono colti solo parzialmente. A Platone interessa discutere astrattamente sulla giustizia e cominciare ad abbozzare quella che poi diventerà la sua teoria delle Idee. Ma nel contempo emerge un quadro della personalità socratica, e della sua relazione con gli ateniesi, assolutamente veritiero e coerente con le conclusioni che si possono trarre dalla lettura dell’Apologia. Si sta per deliberare sulla sua morte e Socrate si gingilla con le questioni morali; invece di lasciare in pace quell’altro disgraziato lo tormenta, smontando a uno a uno tutti i suoi pregiudizi; l’ottuso interlocutore non ci capisce più nulla; alla fine se la svigna, troncando la discussione con una scusa evidente e quindi senza neppure tanta cortesia, a onta della disponibilità e del rispetto fin lì dimostrati al suo torturatore verbale.
Con il suo interloquire invadente, Socrate dovette attirarsi veramente antipatie a non finire. Ma nell’Eutifrone, dove la sua controparte non è il solito discepolo ma un cittadino come quelli che fermava per strada, si vede come il problema andasse al di là dell’aspetto derisorio e denigratorio dei suoi tranelli dialettici. Anche se nemmeno lui svicola dalla rete dei “giusto”, “sì”, “certo”, che a un certo punto si era costretti a pronunciare di fronte allo stringente argomentare socratico, Eutifrone ha una seria difficoltà a comprendere sino in fondo quanto Socrate dice e non (o almeno non solo) perché sia uno stupido. E come se parlassero due lingue diverse. E in un certo senso è così: essi usano il linguaggio in due modi completamente differenti, Eutifrone per ripetere e imitare, Socrate per confutare e innovare. Si tratta di quello che è stato definito passaggio dall’oralità mitico-poetica all’oralità concettuale-dialettica ed è il salto culturale che prepara l’avvento dell’uomo razionale e origina la moderna antropologia occidentale.
Fino a Socrate, la cultura consisteva nell’apprendimento delle immagini mitiche tramandate dalla poesia, nella loro ripetizione, nell’identificarsi con gli eroi tragici. L’esortazione strategica con cui Socrate scompaginava l’impostazione cerebrale dei suoi interlocutori era nella sostanza: “Spiegati”. Con il che l’interpellato era costretto a cercare una formulazione nuova per il suo enunciato, abbandonando il frasario precostituito. La dialettica, dunque, era uno strumento volto a ridestare le coscienze dal torpore estatico del sogno per stimolarle a pensare astrattamente.
Si spiega allora come il metodo socratico provocasse non solo fastidio ma anche vere e proprie crisi d’identità. E come, sul piano sociale, avversando la mimesi e la tradizione quali fonti di sapienza, esso sfociasse oggettivamente in eversione. In Grecia la teologia non si fondava sui sacerdoti ma sui poeti e le loro invenzioni mitologiche; il culto degli dei e le liturgie erano un momento rituale di comunione, essenziale per la costruzione della cittadinanza. Erano, insomma, un affare di Stato assai più che una questione interiore. Attaccare la tradizione e il pensiero mitico che la sorreggeva voleva dire attaccare, in uno, gli dei e la polis. Questa rete di collegamenti, che gli stessi ateniesi non avrebbero saputo ricostruire nella sua articolazione se non adottando un ragionamento di tipo socratico, chiarisce la forma tanto generica dell’accusa (senza dimenticare, peraltro, che quella genericità era motivata anche dalla difficoltà di addebitare fatti specifici, essendo coperti dall’amnistia tutti quelli eventualmente commessi fino a quattro anni prima).
Si può dire, ciononostante e come normalmente si fa, che Socrate fosse religioso? Una certa importanza viene data alla questione dell’oracolo, che Socrate mette a capo delle sue inchieste. Che l’episodio sia autentico o meno non conta granché: anche perché Socrate potrebbe averlo riferito in buona fede, ma essere stato indotto in inganno dalla compiacenza diplomatica dell’oracolo nella risposta a una domanda già posta in maniera capziosa o, perché no, dal fatto che l’amico Cherofonte gli avesse raccontato una balla. Però è di sicuro interessante capire se ci credesse lui. Sembra altamente verosimile che per un temperamento così sottilmente ironico fosse una splendida tentazione ribaltare l’accusa e mettere a disagio gli avversari. Dite che non credo negli dei? Ma se faccio domande a destra e sinistra proprio per compiacere Apollo, che attraverso l’oracolo mi ha messo su quella strada! Nel discorso tanto profondo e socialmente disincantato dell’Apologia, tanta insistenza sullo smascheramento dell’ignoranza come servizio reso al dio, se non fosse ironia corrosiva, sarebbe fanatismo superstizioso, decisamente poco in linea con il carattere complessivo del personaggio.
L’altra traccia che condurrebbe alla religiosità di Socrate è il daimonion, quella voce che lo guida nelle scelte, dissuadendolo da ciò che reputa inopportuno. Benché sia lo stesso Socrate, nel processo, a connotare la voce in senso divino, balza subito all’occhio la totale mancanza di parentela con il concetto allora corrente di divinità. Tanto gli dei erano raffigurati in carne e ossa, tanto il daimonion di cui parla Socrate è astrazione pura. Si tratta della coscienza, di quella parte immateriale del nostro essere che Socrate per primo contribuisce a delineare, assegnandogli la parte decisiva nella nostra condotta di agenti morali. Scrisse giustamente Hegel che Socrate fu il primo a far valere il riflesso della soggettività contro il dominio, sull’individuo, dei costumi, della tradizione e, in generale, della comunità. Nella pratica del “conosci te stesso” egli scoprì il nocciolo di un Io non assimilabile all’ambiente e alle convenzioni esterne, una sacca di resistenza nei confronti dell’azione eterodiretta, una concordanza tra il pensiero e l’agire quale principio di armonia spirituale e base dell’etica interpersonale. Socrate, dunque, non fu religioso: ma fu lui ad aprire le porte a una religione che non fosse più mero ossequio al culto ma purificazione dell’interiorità.
A questo punto anche il rifiuto dell’esilio prima e della fuga poi, e il cammino coraggioso e sereno verso la cicuta, assumono una collocazione coerente.
Platone offre al personaggio Socrate due motivazioni forti per l’accettazione della morte: nel Fedone la certezza dell’immortalità dell’anima; nel Critone il vincolo della Legge. Con la polis e le sue leggi, egli spiega, si stringe un patto del quale si godono tutti i benefici, che viene volontariamente mantenuto continuando a vivere dentro le mura cittadine piuttosto che altrove, e non sarebbe giusto né onorevole violarlo quando non è più conveniente rispettarlo. E possibile che si tratti di due sovrapposizioni platoniche. Sull’immortalità, Socrate si era espresso in termini dubitativi durante il processo. E della sua disubbidienza, sempre nel processo, aveva fatto un vanto riferendo l’episodio d’insubordinazione ai Trenta tiranni di fronte all’ordine di arrestare Leone di Salamina.
La verità è, probabilmente, molto più semplice. In Grecia, a quell’epoca, nessuno si sorprendeva se i soldati correvano, più o meno scientemente, incontro alla morte sui campi di battaglia. Socrate dimostrò che si poteva morire per la dignità e il rispetto di sé invece che per la gloria. Non aveva voglia di rendersi ridicolo indossando un travestimento per scappare, di approdare a settant’anni in uno Stato straniero, di esporre gli amici alle rappresaglie di Atene, di sentirsi commiserare come un vecchio troppo tenacemente attaccato alla vita, di vedere sorrisini di sufficienza quando avesse ripreso a discutere di giustizia. In qualche modo, la tutela della polis entrava anche in gioco (“pensi che possa sopravvivere e non essere sovvertita una città in cui le sentenze pronunciate non hanno efficacia e possono essere annullate e invalidate da privati cittadini?”, dice a Critone che gli sta proponendo la fuga), ma l’accento prevalente era sulla responsabilità: ci si può rendere indipendenti dagli altri ma bisogna pur sempre considerare, e assumere su sé, le conseguenze della propria condotta. Nel segno trinitario di autonomia critica/dignità/responsabilità, la coscienza disegna la sua struttura morale, che nemmeno l’altrui iniquità può scalfire: “Non dobbiamo ricambiare le ingiustizie né far del male a nessuno, qualsiasi cosa gli altri facciano a noi”, dice ancora Socrate a Critone, quattrocento anni prima di Gesù Cristo. La sua ineguagliata grandezza fu nella biografica commistione di teoria e prassi: Socrate espose la filosofia nelle sue azioni di vita e anche nella sua morte.
“Siamo in debito di un gallo con Asclepio. Ricordatevene”, furono le sue ultime parole ai discepoli. “Sarà fatto. Ma vedi se devi dire qualcos’altro”, lo spronò uno di loro, sperando in una massima meglio tagliata per la posterità, deluso come lo Zelig di Woody Allen, a cui il padre agonizzante raccomandò come ultimo monito di conservare bottiglie vuote. Invece il maestro spirò. Lui che aveva praticato e diffuso l’arte del dialogo troncò l’ultimo suo nel modo più bizzarro. O forse, dato che i galli si donavano al dio Asclepio dopo la guarigione da una malattia, intese segnalare che la stessa vita era una malattia dalla quale infine si stava liberando.
Estratto (da “La storia in dieci processi“)
Socrate, Gesù, Giovanna d’Arco, Galileo, Dreyfus, Landru, Sacco e Vanzetti, Norimberga, i coniugi Rosenberg, Berlusconi: dei grandi eventi nei tribunali rimangono spesso nella memoria collettiva solo i verdetti e una radicale semplificazione delle ragioni che li determinarono. Invece, partendo dal racconto sintetico riguardanti questi dieci processi, il libro cerca di ricostruire cosa, di volta in volta, fosse veramente in gioco. E di mostrare come il processo, simbolo estremo della tensione tra la libertà degli individui e i loro vincoli verso la comunità, si riveli puntualmente in grado di illuminare un’intera epoca.
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