Quante volte viene da criticare l’assegnazione del Premio Nobel perchè orientato in funzione di criteri di equilibrio geografico o di elitario e stravagante snobismo invece che secondo i meriti puramente letterari? E però accade che la stizza affiori solo perché uno è ignorante e provinciale, e la giuria del Nobel per fortuna no. Personalmente non avevo idea di chi fosse Abdulrazak Gurnah, pubblicato poco e male in Italia, e la motivazione del Nobel mi era parsa più adatta a un riconoscimento politico: “intransigente e profonda analisi degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel golfo tra culture e continenti”. E invece, davvero Gurnah ci introduce con esattezza a una dimensione psicologica complessa, nella quale il colonialismo e le sue ceneri innervano nel quotidiano i microcomportamenti dei popoli ex colonizzatori e colonizzati e trovano un crocevia rivelatore nel momento dell’immigrazione. E lo fa non come un trattatista (quale anche è) ma da fantastico e limpido narratore. “Sulla riva del mare” si divide in tre parti: la prima racconta (secondo il suo punto di vista) l’arrivo in Inghilterra da Zanzibar del sessantacinquenne mercante Saleh Omar, dei suoi espedienti per essere accolto come rifugiato e delle condotte spesso goffe e malaccorte di chi lo accoglie, del fatto che abbia usato per il passaporto il nome del suo nemico, con il quale si erano reciprocamente rovinati; nella seconda, l’io narrante è Latif Mamhud, il figlio di quel suo nemico, che in Inghilterra con fatica è riuscito a procurarsi una posizione di apparente integrazione, e che il destino mette sulla strada di Omar; nella terza, focalizzata sull’incontro tra due e lo svelamento di un passato diverso da quello immaginato, la voce torna a Omar. Questo confronto è uno dei più appassionanti che la narrativa del XXI secolo ci abbia fin qui offerto. Ma già l’inizio del romanzo è folgorante: Omar finge di non capire una parola d’inglese mentre il funzionario alla dogana vuole dissuaderlo dall’ingresso, e così prosegue un apparente monologo secondo il registro del dialogo, ed è uno straordinario funambolismo teatrale la messa in scena di questo multiplo gioco d’inganni. Nel suo stile perfetto e pacato, Gurnah si serve della figura dell’esule anche come metafora di una più vasta condizione umana e della possibilità che ogni uomo, anche nella condizione più misera, ha di assumere qualche forma di controllo sulla sua vita, e dimostra che gli spetta ricercarlo senza limite di età. Con molti aggiustamenti e una dose di rassegnazione, certo, ma pure con la risorsa di “preferire di no”, secondo la formula di Bartleby, che entrambi- Latif e Omar- provano vanamente a condividere con i culturalmente ignari interlocutori, prima di riconoscersela reciprocamente metabolizzata e cucita addosso, sopravvissuta al naufragio dell’universalismo occidentale.
Abdulrazak Gurnah
Sulla riva del mare
Traduzione di Alberto Cristofori
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