Quanto avrebbe resistito questa famiglia se fosse pure stata costretta alla convivenza continuativa per via della quarantena? Basta molto meno per mostrarne le crepe in questa bella opera di esordio di Carlos Manuel Alvarez che, trasportata in teatro con i debiti ritocchi, sarebbe un testo di straniante esattezza cechoviana, e in questa sua versione di fluida prosa narrativa illustra lateralmente il declino di una Cuba annoiata e snaturata. Le voci narranti sono quattro che si alternano nel medesimo ordine: il padre, rigoroso e patetico funzionario nostalgico dell’ortodossia rivoluzionaria in una società ormai disincantata e corrotta; la madre con la sua malattia epilettica e le cadute nelle quali “il corpo fa lo stesso rumore dei sacchi” o dei dizionari ma anche “dei bicchieri di cristallo o dei vasi di porcellana”; la figlia che l’assiste a casa e fuori froda le ragioni pubbliche; il figlio traumatizzato dall’infanzia in cui “la funzione di un padre, se intende provarti dei re magi sarebbe di sostituirli”, inebetito e incattivito dalla leva militare e persuaso che a un certo punto persino due rette parallele siano destinate a incontrarsi. L’analogia terribile e accattivante è quella dei polli che negli spazi stretti (che qui sono esistenziali prima che fisici) scivolano verso il cannibalismo. E lo sviluppo un lento e inesorabile accavallarsi delle personali desolazioni e allucinazioni.
Carlos Manuel Alvarez
Cadere
Traduzione di Violetta Colonnelli
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