La maternità come forse non l’avete mai letta, ma come l’avete intuita senza che nessuno avesse il coraggio di rappresentarla. Oltre la gioia, oltre la proiezione di sé, colta in quel suo lato represso e oscuro della donna che non è pronta a staccarsi dalla creatura che porta nel grembo e che dopo non è pronta a caricarsi della dipendenza tirannica di quell’esserino al quale non ha la forza di restare unita. La maternità come esplodere di solitudini familiari, passaggio attraverso l’occhio severo e omologante degli sguardi e degli obblighi sociali, prova di adeguatezza soverchiante che rigetta ogni istinto difensivo nella condanna silenziosa della “cattiva madre” e nell’interiorizzazione di questo apparente deficit. Elegantemente costruito in tutti i capitoli in una divisione tra l’avvicinarsi e il compiersi del parto e il duello ferino tra le fragili incertezze della madre e l’assertivo pianto della bambina, il romanzo di Rossella Milone è l’epifania di una comune storia fisica e interiore raccolta dentro una cornice linguistica immediata, controllata, espressiva. Senza che gli uomini facciano brutta figura, anzi: e però la fatica di quella felicità a portata di mano è rimessa alla riconquista, inevitabilmente personale, che la madre deve operare di se stessa.
Rossella Milone
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