Si possono far coincidere la depressione con un profondo e carnale desiderio della vita? Forse non tutti i lettori concorderanno col fatto che la protagonista di Stagno, della quale quasi nulla sappiamo se non che proviene da un lavoro accademico e si è ritirata a vivere isolatamente sulla costa atlantica dell’Irlanda, sia una depressa incline alla paranoia. Ma bisogna pure dar conto di quella costante lateralità del pensiero e del sistematico ingigantimento del dettaglio, oltre che di una profonda inconsapevolezza del proprio stesso sguardo ironico sugli esseri umani. Il bello, letterariamente parlando, è che questa donna, un po’ come chi per la cucina si arrangia con quel che trova in frigo, distilla dal disagio una conoscenza intima della natura e un rapporto stretto, quasi arcaico, con la terra, e se ne serve per affinare tutte le sue percezioni e gratificare in questo modo il suo desiderio di godimento. Il romanzo è atipico: è una narrazione in prima persona che ripensa e riordina grammaticalmente il flusso di coscienza e si divide in venti episodi, dei quali è sempre complicato capire quale parte del mentale sia realmente traslata alla sfera dell’accadere. La storia è circolare, come lo stagno del titolo, prossimo a quello in cui la donna vive: poche cose fomentano l’indignazione della protagonista quanto il cartello con cui si avverte che c’è uno stagno, e assurge a paradigma dell’esistenza cancellata dalla prevaricazione delle parole. Qualcuno ha scritto che questo sarebbe stato il romanzo di Emily Dickinson, se lo avesse scritto: le ascendenze più autentiche paiono tuttavia Beckett e Virginia Woolf. Il linguaggio pende ripetutamente verso il poetico. E’ una lettura non semplice ma una rilettura di rara soddisfazione.
Claire-Louise Bennett
Stagno
Traduzione di Tommaso Pincio
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