Mette in scena profonde crisi interiori, e quindi il senso tragico dell’esistenza ma la deriva surreale della loro (non) risoluzione lo trascina verso il comico. Accostato a Ibsen come a Kunt Hamsun, cinico e decadentista, critico morale della società capitalistica, questo è Dag Solstad, inquieto leone della narrativa norvegese di cui viene pubblicato per la prima volta in Italia “Romanzo 11, libro 18” del 1992, titolo che rappresentava all’epoca la posizione del volume nella sua cronologia e anche il temperamento bizzarro dello scrittore. Il romanzo, quasi privo di dialoghi, si svolge per buona parte con l’incursione dell’io narrante nella testa del protagonista, Bjorn Hansen, un pubblico funzionario che per amore (dell’idea di amore più che dell’amante Turid) ha abbandonato la moglie e un figlio e si è acconciato a vivere in una cittadina che gli rimane insignificante. Il trascorrere del tempo scalfisce la bellezza di Turid e ne ridicolizza le malie, offre a Bjorn l’occasione vana di costruire il rapporto con un figlio troppo diverso e troppo simile, lo pone di fronte allo spettro della mancanza di senso e infine gli suggerisce di compiere un gesto enorme, ribellistico e paradossale, che cerca di temperare costruttivamente il nichilismo nel modo apparentemente meno sensato. Solo apparentemente, però, dato che si risolve nel passaggio da una recita sociale a un’altra in linea con la natura finzionistica delle relazioni umane.
Dag Solstad
Romanzo 11, libro 18
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