Un bambino apprende di essere nipote per via materna di Hitler e si trascina per tutta la vita questo trauma. Molti narratori nostrani (ed editori) lo avrebbero considerato un soggetto narrativo interessante solo se il tipo fosse esistito davvero, potendo a ogni piè sospinto rassicurare il lettore di avere lavorato (va da sé, salvo l’adeguata libertà dell’espressione artistica) soltanto su una solida documentazione. Carlo D’Amicis passa la maggior parte del suo tempo nell’elaborazione autoriale di raffinate trasmissioni televisive e radiofoniche dedicate all’approfondimento culturale: non sorprende che, senza timori e lontano da ogni provincialismo inclinante alla letteratura intimistica o questurina, confezioni un fantasioso romanzo di respiro europeo, intinto in un realismo magico che si spinge fino al grottesco, e ne faccia veicolo di una sfaccettata riflessione sulla memoria, sulla sua permeabilità alla manipolazione, sulla sua invadenza, sul suo potere di ingabbiamento. Come è sua abitudine, D’Amicis – che nonostante una produzione letteraria già variegata e importante non ha ancora ricevuto tutti i riconoscimenti che merita – affida ai suoi personaggi costrutti mentali apparentemente semplici, demandando al lettore di scovare nella nascosta complessità: e, sempre come da sua prassi, questo lettore lo coccola grazie a una irresistibile qualità affabulatoria, uno stile di vivace eleganza senza mai un barocchismo e un fine registro umoristico, che non scolorisce, tutt’altro, la drammaticità dei temi. Werner Wolf, il protagonista, nel presente della storia è un tossicodipendente mezzo accampato che non cura la sua leucemia e si consuma nella vergogna della sua origine. Il deuteragonista è suo padre Rudolf, che nei bei tempi che furono organizzava spettacolini con filonazisti in cui la moglie Klara cantava e si faceva gentilmente cavare il sangue fuhrerino, commerciato quale elisir d’immortalità. Dopo la morte di lei, nasce un conflitto generazionale perché Werner non ha intenzione di prestarsi per proseguire la tradizione e farsi modellare come uno dei bonsai che il combattivo genitore confeziona nei suoi vivai. Accanto alla storia presente, si dipana un secondo filone narrativo che progressivamente rimette a posto i pezzi del passato, e ce lo restituisce, a noi e Werner, molto diverso da come era stato presentato. Per ricucirlo a sua volta Werner lascia Berlino, diventata particolarmente inospitale da quando persino Gunther Grass lo ha maltrattato mentre gli chiedeva un autografo e soprattutto da quando lo incalza un impresario che vuole allestire un reality show con i discendenti dei grandi criminali politici. La rincorsa del passato lo conduce (tumultuosamente) in un paesino del Sud Italia, dove di lui si prende cura una sveglissima ragazzina. E qui i fili della realtà e quelli dello straordinario prendono più nettamente a mescolarsi, senza confondere in alcun modo il lettore: in fondo il verosimile (non parliamo poi per far quadrare i conti in una mente disturbata come quella di Werner) nasce più spesso dalla combinazione di questi due piani che dalle sovversioni di casistica della cronaca.
Carlo D’Amicis
La regola del bonsai
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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